"È un peso."

"Quello che voglio dire è: è suo fratello, Dovrebbe essere lei stesso a eliminarlo."

Gli occhi di Oscar si dilatarono. "Oh mio Dio," disse.

"Pensi cosa direbbero a Yzordderrex, se glielo dovesse raccontare."

"Cosa? Che ho ucciso il mio stesso fratello? Non ci vedo niente di affascinante."

"Ma lei avrebbe fatto quello che doveva fare, per quanto sgradevole, pur di garantire il segreto." Dowd fece una pausa per lasciare che l'idea prendesse piede, "A me sembra una cosa eroica. Pensi a cosa diranno."

"Ci sto pensando."

"La cosa che le sta più a cuore è la sua reputazione a Yzordderrex, non quello che accade nel Quinto, non è vero? Ha detto più volte che questo mondo diventa sempre più monotono."

Oscar rifletté per un po', poi disse: "Forse dovrei svignarmela. Ucciderli entrambi per essere sicuro che nessuno sappia mai dove sono andato..."

"Dove siamo andati."

"... andarmene alla chetichella ed entrare nella leggenda. Oscar Godolphin, che lasciò il fratello pazzo morto accanto a sua moglie, e scomparve. Oh sì. Questo sì che farebbe notizia a Patashoqua." Meditò per qualche altro momento. "Qual è l'arma classica del fratricidio?" chiese infine.

"La mascella d'asino."

"Ridicolo."

"Trovi lei qualcosa di meglio."

"Lo farò. Preparami un drink, Dowdy, E fanne uno anche per te. Brinderemo alla fuga."

"Non è quello che fanno tutti?" replicò Dowd, ma Godolphin non reagì al commento, già profondamente immerso com'era in pensieri omicidi.

 

20

 

I

 

Gentle e Pie rimasero sull'autostrada di Patashoqua per sei giorni, giorni che non vennero misurati all'orologio al polso di Pie, ma grazie all'illuminarsi e oscurarsi del cielo color blu e verde pavone. Il quinto giorno, in ogni modo, l'orologio dette forfait e impazzì a causa, pensò Pie, del campo magnetico che circondava una città di piramidi vicino alla quale passarono. In seguito, nonostante Gentle tentasse di conservare il senso del tempo che passava nel Dominio che avevano lasciato, la cosa fu di fatto impossibile. Di là a un paio di giorni i loro corpi si adattarono al ritmo del nuovo mondo, e Gentle lasciò che la sua curiosità si saziasse con questioni più pertinenti; soprattutto con il panorama in cui stavano viaggiando.

Era vario. Durante la prima settimana passarono dalla pianura in una regione di lagune - detta la Cosacosa - per attraversare la quale impiegarono due giorni, e in seguito in mezzo a distese di vecchie conifere così alte che le nuvole ne avvolgevano i rami superiori come nidi di uccelli eterei. Oltre quella stupenda foresta si potevano vedere le montagne che Gentle aveva scorto giorni prima. La catena era chiamata Jokalaylau, lo informò Pie, e la leggenda diceva che dopo il Monte di Lipper Bayak, quelle cime erano state il successivo luogo di riposo di Hapexamendios nel suo viaggio attraverso i Domini. Non era un caso, pareva, che i paesaggi che incontravano ricordassero quelli del Quinto; erano stati scelti per la loro similarità. L'Imperscrutato aveva percorso a grandi passi l'Imagica lasciando cadere durante il cammino semi di umanità anche fino al confine del Suo sacrario in modo da dare alla specie che Lui preferiva nuovi stimoli e, come ogni giardiniere che si rispetti, li aveva sparsi dove avevano le migliori possibilità di prosperare: dove il gruppo indigeno poteva essere conquistato o sottomesso; dove la vita era sufficientemente dura perché sopravvivessero solo i più forti, ma fertile abbastanza da nutrire i loro figli; dove c'era pioggia; dove c'era luce; dove si susseguivano tutte le vicissitudini che rendevano una specie più forte attraverso calamità occasionali, tempeste, terremoti, alluvioni.

Ma mentre c'erano tante cose che qualsiasi viaggiatore terrestre avrebbe riconosciuto, niente, neanche il più piccolo sassolino sotto i piedi, era esattamente come la sua copia nel Quinto. Alcune di queste differenze erano troppo evidenti per passare inosservate: l'oro verde dei cieli, ad esempio, o le lumache elefantine che brucavano sotto gli alberi coronati dai nidi di nuvole. Altre erano meno vistose, ma ugualmente bizzarre, come i cani selvatici che correvano ogni tanto lungo l'autostrada, senza pelo e lucidi come cuoio verniciato; o grottesche, come i nibbi cornuti che si avventavano su ogni animale morto o morente per strada, e che abbandonavano il loro pasto, con le ali viola che si aprivano come mantelli, solo quando la vettura era ormai quasi su di loro; oppure assurde, come le lucertole bianco-calce che si adunavano a migliaia lungo i bordi delle lagune, e a drappelli d'improvviso iniziavano tutte insieme a fare capriole.

Forse riuscire a reagire in maniera nuova a quelle esperienze era impossibile, dato che il proliferare di storie di viaggiatori aveva completamente esaurito il vocabolario della scoperta. Ma Gentle era comunque irritato perché si sentiva reagire secondo cliché: il viaggiatore commosso dalla bellezza intatta, o sgomento dalla barbarie locale; il viaggiatore messo a contatto con saggezze primitive o al quale modernità mai sognate mozzavano il fiato; il viaggiatore condiscendente; il viaggiatore dimesso; il viaggiatore che anela il prossimo orizzonte, o che si strugge miseramente di nostalgia. Di tutti quegli impulsi, forse solo l'ultimo non toccò mai le labbra di Gentle. Pensava al Quinto soltanto quando saltava fuori nella conversazione tra lui e Pie, e ciò succedeva sempre meno spesso a mano a mano che le esperienze del momento divenivano più incalzanti. Al principio fu facile trovare cibo e posti in cui dormire, come anche il carburante per l'auto. Lungo l'autostrada c'erano piccoli villaggi e ostelli, in cui Pie, malgrado fosse privo di contanti, riusciva sempre ad assicurarsi il sostentamento e i letti in cui dormire.

Gentle comprese che il mystif disponeva di una vasta gamma di inganni: riusciva a usare i suoi poteri di seduzione per rendere arrendevole anche il più rapace degli albergatori. Ma, una volta oltre la foresta, le cose si complicarono. La quantità di auto agli incroci era diminuita e l'autostrada, da arteria principale e ben tenuta si era ridotta a una normale strada a due corsie, con più buchi che traffico. Il veicolo che Pie aveva rubato non era stato progettato per i lunghi viaggi. Iniziò a dare segni di stanchezza, e mentre le montagne si profilavano all'orizzonte, i due viaggiatori decisero di fermarsi al primo villaggio e cercare di scambiarlo con un modello più affidabile.

"Magari qualcosa che abbia più fiato in corpo," suggerì Pie.

"A proposito:" disse Gentle, "non mi hai mai chiesto del Nullianac."

"Che cosa dovevo chiederti?"

"Come l'ho ucciso."

"Ho immaginato che avessi usato uno pneuma."

"Non mi sembri molto sorpreso."

"Come avresti fatto, altrimenti?" chiese Pie seguendo un ragionamento la cui logica però a Gentle sfuggiva. "Avevi la volontà e avevi il potere."

"Ma da dove l'ho preso?" chiese Gentle.

"L'hai sempre avuto," rispose Pie, e con questo lasciò Gentle a riflettere sulle stesse domande che già si era posto. Si accinse a formularne un'altra, ma qualcosa nel movimento dell'auto iniziò a nausearlo. "Forse sarebbe meglio fermarci per qualche minuto," disse. "Credo che tra poco vomiterò."

Pie fermò la macchina, e Gentle scese. Il cielo si stava oscurando, e qualche fiore notturno profumava l'aria che andava rinfrescandosi. Sui pendii sopra di loro mandrie di animali dai fianchi pallidi, imparentati con gli yak ma chiamati doeki, calavano mugghiando nella luce crepuscolare verso i loro pascoli-dormitorio. I pericoli di Vanaeph e l'autostrada affollata fuori da Patashoqua sembravano assai lontani. Gentle respirò profondamente e la nausea, come le sue domande, non lo tormentò più. Alzò lo sguardo verso le prime stelle. Lì alcune erano rosse come Marte; altre dorate: frammenti del cielo di mezzogiorno che rifiutavano di essere smorzati.

"Questo Dominio è un altro pianeta?" chiese Gentle a Pie. "Siamo in un'altra galassia?"

"No. Non è lo spazio a separare il Quinto dal resto dei Domini, è l'In Ovo."

"Allora il Quinto Dominio è tutto il pianeta Terra, o solo una parte di esso?"

"Non lo so," rispose Pie. "Tutto, credo. Ma ognuno ha una teoria diversa."

"E la tua qual è?"

"Be', quando ci sposteremo tra i Domini Riconciliati, vedrai anche tu che è molto semplice. Ci sono innumerevoli punti di passaggio tra il Quarto e il Terzo, il Terzo e il Secondo. Si cammina in una nebbia e si esce in un altro mondo. Tutto qui. Ma io non credo che i confini siano fissi. Credo che si spostino nel corso dei secoli, e che le forme dei Domini cambino. Può darsi che succeda la stessa cosa con il Quinto. Se sarà riconciliato, i suoi confini si estenderanno, fino a che l'intero pianeta avrà accesso al resto dei Domini. La verità è che nessuno sa esattamente che aspetto abbia l'Imagica, perché nessuno ne ha mai tracciato una mappa."

"Qualcuno dovrebbe provarci."

"Forse sei tu l'uomo adatto," disse Pie, "dato che eri un artista prima di diventare un viaggiatore."

"Ero un falsario, non un artista."

"Ma le tue mani sono abili," replicò Pie.

"Abili," mormorò Gentle, "ma mai ispirate."

Questo pensiero malinconico lo riportò momentaneamente a Klein e al resto della cerchia che aveva lasciato nel Quinto; a Jude, Clem, Estabrook, Vanessa e gli altri. Cosa stavano facendo in questa bella nottata? Si erano accorti della sua assenza? Ne dubitava.

"Ti senti meglio?" chiese Pie. "Più avanti, sulla strada, vedo delle luci. Potrebbe essere l'ultimo avamposto prima delle montagne."

"Sto bene," disse Gentle, tornando in macchina.

Proseguirono per poche centinaia di metri, e avevano appena avvistato un villaggio, quando vennero fermati da una ragazza che apparve dall'oscurità per raggnippare i suoi doeki sulla strada. Era una bambina sui tredici anni, normale sotto ogni aspetto tranne uno: il suo viso, e quelle parti del corpo che il suo semplice vestito lasciava intravedere, splendevano per la presenza di una peluria, una specie di lanugine. Dove era lunga, sui gomiti e sulle tempie, era intrecciata, e sulla nuca era legata in una serie di fiocchi.

"Che paese è questo?" chiese Pie mentre l'ultimo dei doeki indugiava sulla strada.

"Beatrix," rispose lei, e di sua spontanea volontà aggiunse: "Non esiste luogo migliore sotto nessun cielo."

Poi, gridando "sciò" all'ultimo animale del gruppo, svanì nel tramonto.

 

II

 

Le strade di Beatrix non erano strette come quelle di Vanaeph, ma non erano nemmeno progettate per veicoli a motore. Pie parcheggiò l'auto vicino alla periferia, e i due si diressero da lì a piedi dentro al villaggio. Le case erano costruzioni modeste in pietra color ocra, circondate da distese di piante che erano un incrocio tra la betulla bianca e il bambù. Le luci che Pie aveva visto da lontano non erano quelle che illuminavano le finestre, ma le lanterne che pendevano dagli alberi gettando la loro luce calda sulle strade. Quasi ogni boschetto poteva vantare un suo fornitore di lanterne, bambini con la faccia villosa come pastori, alcuni acquattati sotto gli alberi, altri appollaiati precariamente sui rami. Le porte di quasi tutte le case erano aperte, e da alcune uscivano melodie che giungevano ai fornitori di lanterne, i quali le ballavano nella macchia. Se gliel'avessero chiesto, Gentle avrebbe detto che lì la vita era bella. Lenta, forse, ma bella.

"Non possiamo ingannare queste persone," disse Gentle. "Non sarebbe onorevole."

"Hai ragione," concordò Pie.

"E allora come facciamo per i soldi?"

"Forse accetteranno i pezzi della macchina in cambio di un buon pasto, e di un cavallo o due."

"Io non vedo cavalli."

"I doeki andranno benissimo."

"Sembrano lenti."

Pie indicò a Gentle le cime del Jokalaylau. Le ultime tracce del giorno indugiavano ancora sui campi innevati, ma nonostante la loro bellezza le montagne apparivano vaste ed evanescenti.

"Lenti e sicuri è molto meglio, lassù," disse Pie. Gentle comprese il suo punto di vista. "Andrò a vedere se riesco a trovare qualche responsabile," continuò il mystif, e lasciò Gentle per andare a interrogare uno dei ragazzi delle lanterne.

Attirato dal suono di una risata roca, Gentle si inoltrò ulteriormente nel paese, e svoltando un angolo vide due dozzine di abitanti, soprattutto uomini e ragazzi, in piedi davanti a un teatrino di marionette che era stato eretto al riparo di una casa. Lo spettacolo a cui stavano assistendo contrastava violentemente con l'atmosfera pacifica del villaggio. A giudicare dalle guglie dipinte sulla scena di fondo, la storia era ambientata a Patashoqua, e quando Gentle si unì agli spettatori, due personaggi, una donna rozza e grassa e un uomo dalle proporzioni di un feto e gli attributi di un somaro, erano nel pieno di una lite domestica tanto furiosa che le guglie ne tremavano. I burattinai, tre giovani magri con baffi identici, erano ben visibili sopra il baraccone, e fornivano oltre al dialogo rauco anche gli effetti sonori, condendo il primo di barocche oscenità. In quel momento entrò un altro personaggio - la copia di un Pulcinella con la gobba - e decapitò senza tanti complimenti Dick il Somarello. La sua testa volò a terra, dove la donna grassa si inginocchiò a singhiozzare. Mentre faceva questo, ali di cherubino si spiegarono da dietro le orecchie di Dick, che si innalzò in volo nel cielo, accompagnato da uno strepitio in falsetto da parte dei burattinai. La scena suscitò l'applauso del pubblico, e in quel momento Gentle vide Pie. Accanto al mystif c'era un adolescente con le orecchie a sventola e i capelli lunghi fino a metà schiena. Gentle andò a unirsi a loro.

"Questo è Efreet Splendid," disse Pie. "Mi ha detto (questa è bella) mi ha detto che sua madre sogna uomini bianchi, senza peli, e che vorrebbe conoscerti."

Il ghigno che attraversò la stoppia sul viso di Efreet era da imbroglione, ma ugualmente allettante.

"Le piacerai sicuramente," annunciò il ragazzo.

"Sei sicuro?" chiese Gentle.

"Certamente!"

"Ci darà da mangiare?"

"Qualsiasi cosa, per un bianco senza peli," replicò Efreet.

Gentle lanciò al mystif un'occhiata dubbiosa. "Spero che tu sappia cosa stiamo facendo," disse.

Efreet fece strada, chiacchierando mentre procedevano, e chiedendo per lo più notizie di Patashoqua. Disse che la sua ambizione era di vedere la grande città. Pur di non deludere il ragazzo ammettendo di non aver messo piede al suo interno, Gentle lo informò che Patashoqua era un luogo di indicibile bellezza.

"Specialmente il Merrow Ti'Ti'," disse.

Il ragazzo sorrise, e disse che avrebbe raccontato a tutti quelli che conosceva di aver incontrato un uomo bianco senza peli che aveva visto il Merrow Ti'Ti. È da queste bugie innocenti, rifletté Pie, che nascono le leggende. Sulla porta di casa, Efreet si fece da parte in modo che Gentle fosse il primo a passare la soglia. La sua comparsa colse di sorpresa la donna all'interno: lasciò cadere il gatto che stava spazzolando, e cadde immediatamente in ginocchio. Imbarazzato, Gentle le chiese di rimettersi in piedi, ma dovette insistere molto prima che lei lo facesse, e anche allora la donna continuò a tenere la testa bassa, guardandolo furtivamente dall'angolo dei suoi piccoli occhi scuri. Era bassa - poco più alta del figlio, in effetti - e sotto la peluria il suo viso mostrava un'ossatura sottile. Disse che il suo nome era Larumday, e che sarebbe stata molto felice di offrire a Gentle e alla sua signora (intendeva con ciò Pie) l'ospitalità della propria casa. Il suo figliolo più piccolo, Emblem, venne costretto ad aiutarla a cucinare, mentre Efreet consigliava ai viaggiatori dove avrebbero potuto trovare un acquirente per l'auto. Nessuno nel villaggio aveva bisogno di un veicolo simile, disse, ma sulle montagne c'era un uomo che forse era interessato. Il suo nome era Coaxial Tasko, e fu grande la sorpresa di Efreet quando apprese che né Gentle né Pie avevano mai sentito parlare dell'uomo.

"Tutti conoscono Tasko il Disgraziato," disse. "Era un Re del Terzo Dominio, ma la sua tribù si è estinta."

"Me lo presenterai domattina?" chiese Pie.

"Non così tardi." rispose Efreet.

"Allora stasera," replicò Pie, e in questo modo si accordarono.

Il cibo, quando giunse, era più semplice di quello che era stato servito lungo l'autostrada, ma non per questo meno saporito: carne di doeki marinata in vino di radice accompagnata da pane, una scelta di cibi in salamoia incluse uova grandi come pagnotte e un brodo che pungeva la gola come peperoncino, facendo lacrimare gli occhi di Gentle, cosa che divertì apertamente Efreet. Il vino era forte, ma i ragazzi lo buttavano giù come fosse acqua. Gentle fece delle domande circa lo spettacolo di marionette che aveva visto. Sempre desideroso di mostrare quanto fosse informato, Efreet spiegò che i burattinai erano diretti verso Patashoqua e precedevano le schiere dell'Autarca, che di lì a poco avrebbero attraversato le montagne. I burattinai erano molto famosi a Yzordderrex, disse, e a quel punto Larumday gli impose di tacere.

"Ma mamma..." iniziò lui.

"Ho detto taci. Non voglio che si parli di quel luogo in questa casa. Tuo padre è andato lì e non è mai tornato. Ricordatelo."

"Io voglio andarci dopo che avrò visto il Merrow Ti'Ti', come il signor Gentle," replicò in tono di sfida Efreet, ottenendo in cambio una sberla.

"Adesso basta," disse Larumday. "Per stasera abbiamo parlato fin troppo. Un po' di silenzio sarebbe bene accetto."

In seguito la conversazione scemò, e solo quando la cena fu terminata ed Efreet fu pronto a portare Pie sulla montagna per incontrare Tasko il Disgraziato, l'umore del ragazzo migliorò e la sorgente del suo entusiasmo riprese a zampillare. Gentle intendeva unirsi a loro, ma Efreet spiegò che sua madre, che nel frattempo era uscita dalla stanza, voleva che lui rimanesse.

"Dovresti accontentarla," fece notare Pie quando il ragazzo fu uscito. "Se Tasko non volesse la macchina, potremmo essere costretti a vendere il tuo corpo."

"Credevo che l'esperto fossi tu, non io," replicò Gentle.

"Su, su," disse Pie, con un sorriso. "Non eravamo d'accordo che non avremmo più fatto parola del mio passato equivoco?"

"Allora vai," disse Gentle. "Lasciami alla sua mercé. Ma dovrai togliermi i peli che mi resteranno tra i denti."

Trovò Mamma Splendid in cucina, che impastava il pane del giorno dopo.

"Hai onorato la nostra casa, venendo qui e condividendo con noi la nostra mensa," disse, continuando a lavorare la pasta. "E ti prego, non pensare male di me per questo, ma..." La sua voce divenne un bisbiglio timoroso. "Che cosa vuoi?"

"Niente," rispose Gentle. "Sei già stata più che generosa."

Lei lo guardò minacciosamente, come se in quel modo la stesse crudelmente prendendo in giro.

"Ho sognato che qualcuno veniva qui," disse. "Bianco e senza peli, come te. Non ero sicura se fosse un uomo o una donna, ma ora che sei qui seduto al tavolo, so che eri tu."

Prima Sua Rozzezza, pensò Gentle, ora Mamma Splendid. Che cosa c'era nel suo viso che faceva pensare alla gente di conoscerlo? Aveva un doppio che vagava per il Quarto?

"Chi credi che io sia?" chiese l'uomo.

"Non lo so," replicò lei. "Ma sapevo che quando fossi venuto tutto sarebbe cambiato."

Mentre parlava, i suoi occhi si riempirono improvvisamente di lacrime, che caddero Sulla lanugine vellutata delle guance. La vista del suo dolore rattristò anche lui, non perché sapesse di esserne la causa, ma perché non ne conosceva il motivo. Non dubitava che la donna avesse sognato di lui: lo sguardo di stralunata sorpresa sul suo viso quando lui aveva oltrepassato per la prima volta la soglia ne era una prova evidente. Ma che cosa significava? Lui e Pie erano lì solo per caso. Se ne sarebbero andati la mattina dopo, passando attraverso la gora del mulino di Beatrix senza lasciarvi nemmeno un'increspatura. Un passaggio senza importanza nella vita della famiglia Splendid, forse solo un argomento di conversazione una volta che fosse partito.

"Spero che la tua vita non cambi," le disse. "Sembra molto piacevole qui."

"Lo è," disse lei, asciugandosi le lacrime. "Questo è un posto sicuro. È ottimo per crescere i figli. So che Efreet se ne andrà presto. Vuole vedere Patashoqua e io non sarò in grado di fermarlo. Ma Emblem rimarrà. Gli piacciono le montagne, e gli piace accudire i doeki."

"E rimarrai anche tu?"

"Oh sì. Io ho già viaggiato," rispose lei. "Ho vissuto a Yzordderrex, vicino a Oke T'Noon, quando ero giovane. E lì che ho conosciuto Eloigh. Ce ne siamo andati appena sposati. E una città terribile, signor Gentle."

"Se è così terribile perché lui è tornato lì?"

"Suo fratello si è unito all'esercito dell'Autarca, e quando Eloigh lo ha saputo è tornato lì per convincerlo a disertare. Diceva che avere un fratello stipendiato da un creatore di orfani gettava vergogna sulla famiglia."

"Un uomo con dei princìpi."

"Oh sì," disse Larumday, con voce colma di affetto. "È un brav'uomo: tranquillo come Emblem, ma con la curiosità di Efreet. Tutti i libri di questa casa sono suoi. Non c'è nulla che lui non legga."

"Da quanto tempo è partito?"

"Troppo," rispose lei. "Temo che suo fratello possa averlo ucciso."

"Un fratello che uccide un fratello?" disse Gentle. "No, non ci posso credere."

"Yzordderrex fa cose strane alla gente, signor Gentle. Anche gli uomini buoni si smarriscono."

"Solo gli uomini?" chiese Gentle.

"Sono gli uomini che fanno il mondo," rispose lei. "Le Dee sono scomparse, e gli uomini ottengono quello che vogliono dappertutto."

Non c'era tono accusatorio. Era una semplice constatazione, e lui non aveva argomenti per contraddirla. Larumday gli chiese se voleva del tè, ma lui declinò l'offerta dicendo che voleva uscire a prendere un po' d'aria, e magari cercare Pie'oh'pah.

"E molto bella," disse Larumday. "È anche saggia?"

"Oh sì," rispose lui. "È saggia."

"Di solito le donne belle non sono anche sagge, vero?" chiese la donna. "È strano che non abbia sognato anche lei a tavola."

"Forse lo hai fatto e lo hai dimenticato."

Larumday scosse il capo. "Oh, no, ho fatto quel sogno troppe volte, ed è sempre lo stesso. Un bianco, senza peli, seduto al mio tavolo, mangia con me e con i miei figli."

"Vorrei essere stato un ospite più spumeggiante," disse lui.

"Ma tu sei solo l'inizio, non è vero? disse lei. "Ora cosa succederà?"

"Non lo so," rispose Gentle. "Forse tuo marito tornerà da Yzordderrex."

La donna lo guardò scettica. "No, ma succederà qualcosa," disse lei. "Qualcosa che cambierà noi tutti."

 

III

 

Efreet disse che la salita sarebbe stata facile, e a vederne l'inclinazione pareva proprio vero. Ma l'oscurità rendeva difficile il facile percorso, anche per uno svelto come come Pie'oh'pah. Efreet era una guida servizievole, e rallentò perciò il passo quando si rese conto che Pie rimaneva indietro, avvisandolo anche nei punti in cui il terreno era insicuro. Dopo un po' furono molto in alto rispetto al villaggio, e le cime innevate dello Jokalaylau erano ormai visibili dietro i monti su cui era posta Beatrix. Per quanto quelle montagne fossero alte e maestose, dietro di esse erano visibili le pendici inferiori di rilievi ancora più imponenti, e le loro sommità si perdevano nei cumuli di nubi. Non mancava molto, disse il ragazzo, e questa volta le sue promesse vennero mantenute. Dopo poche centinaia di metri Pie vide il profilo di un edificio stagliarsi contro il cielo, e una luce accesa sulla veranda.

"Ehi, Disgraziato!" iniziò a chiamare Efreet. "C'è qualcuno che vuole vederti! Qualcuno vuole vederti!"

Non ci fu risposta e, quando raggiunsero la casa, l'unica presenza che desse segno di vita era la fiamma nella lampada. La porta era aperta; c'era del cibo sulla tavola. Ma non c'era ombra di Tasko il Disgraziato. Efreet uscì a cercarlo, lasciando Pie sulla veranda. Gli animali rinchiusi nel recinto dietro la casa scalpitavano e borbottavano nell'oscurità; l'inquietudine era palpabile. Efreet ritornò qualche momento dopo dicendo: "Lo vedo sulla montagna! E quasi in vetta."

"Cosa fa lì?" chiese Pie.

"Forse guarda il cielo. Saliremo. Non gli darà fastidio."

Continuarono a salire, e la loro presenza venne notata dalla figura che si trovava sul tratto più alto della montagna. "Chi è?" gridò l'uomo verso il basso.

"Sono solo Efreet, signor Tasko. Sono con un amico."

"La tua voce è troppo alta ragazzo," rispose l'uomo. "Abbassa il volume, vuoi?"

"Vuole che stiamo zitti," sussurrò Efreet.

"Capisco."

Sulla montagna il vento soffiava forte, e il freddo ricordò a Pie che né lui né Gentle avevano vestiti adatti al viaggio che li aspettava. Era evidente che Coaxial saliva lassù regolarmente; indossava una giubba irsuta e un cappello con scaldaorecchie di pelo. Si capiva anche che non era uno del luogo: ci sarebbero voluti tre abitanti del villaggio per eguagliare la sua massa o la sua forza, e la sua pelle era scura quasi come quella di Pie.

"Questo è il mio amico Pie'oh'pah," gli sussurrò Efreet quando gli furono accanto.

"Mystif," disse immediatamente Tasko.

"Sì."

"Ah. Così tu sei lo straniero?"

"Sì."

"Da Yzordderrex?"

"No."

"Almeno questo è un buon segno. Ma così tanti stranieri, e tutti la stessa sera. Che cosa dobbiamo fare?"

"Ce ne sono altri?" chiese Efreet.

"Ascolta..." disse Tasko, spaziando con lo sguardo dalla vallata ai pendii bui sullo sfondo. "Non senti le macchine?"

"No. Solo il vento."

Tasko reagì afferrando il ragazzo e puntandolo tisicamente nella direzione del suono. "Ora ascolta!" disse con veemenza.

Il vento portava un rombo sommesso che poteva essere un tuono lontano, ma continuo. La sua fonte non era certamente il villaggio sottostante, né sembrava probabile che ci fossero in corso dei lavori di sterro sulle colline. Quello era un rumore di motori che si muovevano nella notte.

"Stanno venendo verso la valle."

Efreet emise un grido di piacere, che venne subito interrotto dallo schiaffo che Tasko diede sulla bocca al ragazzo.

"Perché sei così felice?" chiese. "Non hai mai conosciuto la paura? No, non credo che tu l'abbia conosciuta. Bene, imparala ora." Tenne Efreet con una forza tale che il ragazzo iniziò a divincolarsi. "Quelle macchine vengono da Yzordderrex. Dall'Autarca. Capisci?"

Borbottando rabbiosamente la propria collera, Tasko lo lasciò andare, ed Efreet si allontanò da lui indietreggiando, ora nervoso quanto Tasko per le macchine lontane. L'uomo scatarrò e sputò nella direzione del suono.

"Forse passeranno oltre," disse. "Ci sono altre valli cui potrebbero essere diretti. Magari non sceglieranno la nostra." Sputò di nuovo. "Ah, bene, non ha senso rimanere quassù. Se vengono, vengono." Si girò verso Efreet. "Mi dispiace essere stato duro, ragazzo," disse. "Ma ho già sentito queste macchine. Sono le stesse che hanno ucciso la mia gente. Credimi, non c'è motivo di rallegrarsi. Capisci?"

"Sì," rispose Efreet, anche se Pie dubitava che fosse vero. L'idea di una visita da parte di quelle cose rombanti non suscitava orrore in lui, ma allegria.

"Allora dimmi che cosa vuoi, mystif," sollecitò Tasko, quando cominciarono a discendere. "Non sarai salito fin qui per guardare le stelle. O forse sì? Sei innamorato?"

Efreet ridacchiava dietro a loro nell'oscurità.

"Se lo fossi non ne parlerei," disse Pie.

"E allora, perché?"

"Sono venuto qui con un amico, da... molto lontano, e la nostra vettura è quasi fuori uso. Abbiamo bisogno di scambiarla con degli animali."

"Dove siete diretti?"

"Sulle montagne."

"Siete preparati per questo viaggio?"

"No. Ma dobbiamo compierlo ugualmente."

"Credo che prima ve ne sarete andati dalla valle, più saremo al sicuro. Gli stranieri attirano stranieri."

"Ci aiuterai?"

"Questa è la mia offerta," disse Tasko. "Se lasciate Beatrix ora, farò in modo che vi diano rifornimenti e due doeki. Ma dovete fare alla svelta, mystif."

"Capisco."

"Se partite ora, forse le macchine passeranno oltre."

 

IV

 

Senza qualcuno che lo guidasse, Gentle perse ben presto la strada sulla montagna buia. Ma piuttosto che tornare indietro ad attendere Pie a Beatrix, continuò a salire, attirato dalla promessa della vista dalle colline e dal vento che gli avrebbe schiarito i pensieri. Entrambi gli mozzarono il fiato. Il vento con il suo gelo, il panorama con la sua vastità. Davanti, le catene montuose si dissolvevano nella nebbia e in lontananza le cime più lontane erano così maestose da far sorgere in lui il dubbio che il Quinto Dominio non potesse vantarne l'uguale. Dietro a lui, appena visibili attraverso il profilo sfumato delle colline pedemontane, si estendevano le foreste attraverso le quali erano passati.

Ancora una volta desiderò avere una mappa del territorio, in modo da poter farsi un'idea della portata del viaggio che stavano intraprendendo. Cercò di fissare il paesaggio in una pagina della sua mente, come uno schizzo per un dipinto, con quella vista delle montagne, colline e pianure come soggetto. Ma la scena davanti a lui ebbe il sopravvento sul suo tentativo di esprimerla per simboli, di ridurla, di fissarla. Lasciò perdere, e si voltò a osservare lo Jokalaylau. Prima che il suo sguardo raggiungesse la meta, si soffermò sugli altri pendii direttamente di fronte. Gentle fu subito cosciente della simmetria della vallata, con le colline che raggiungevano tutte la stessa altezza, a sinistra e a destra. Studiò i pendii dalla parte opposta.

Era un'impresa senza senso cercare un segno di vita da una tale distanza, ma più Gentle scrutava l'aspetto delle colline, più si convinceva che fossero uno specchio scuro, e che qualcuno ancora invisibile stesse studiando l'ombra nella quale si trovava lui, cercando qualche suo segno, come Gentle cercava i loro. Dapprima l'idea lo affascinò, ma poi iniziò a intimorirlo. Il freddo sulla sua pelle si fece strada dentro di lui. Cominciò a tremare interiormente, incapace di muoversi per paura che l'altro, chiunque o qualunque cosa fosse, lo vedesse e che, vedendolo, potesse scatenare qualche calamità. Rimase immobile a lungo, con il vento gelido che soffiava portando con sé suoni fino ad allora inauditi. Rombo di macchine, lamenti di animali non nutriti, singhiozzi. I suoni e il cercatore nella collina-specchio erano intimamente uniti, lo sentiva. Quella creatura non era venuta sola. Aveva motori e animali. Portava lacrime.

Quando il freddo gli arrivò al midollo, udì Pie'oh'pah chiamare il suo nome dai piedi della collina. Gentle pregò che il vento non virasse in direzione dell'osservatore, portando con sé le grida e rivelando la sua posizione. Pie continuò a chiamarlo, e man mano che il mystif si arrampicava nell'oscurità la sua voce si avvicinava. Gentle sopportò per cinque minuti, mentre sentiva il suo organismo lacerato da due desideri opposti: una parte di lui desiderava disperatamente avere con sé Pie che lo abbracciava e gli diceva che i suoi timori erano ridicoli; l'altra parte era terrorizzata all'idea che Pie lo trovasse, rivelando così alla creatura sull'altra collina dov'era. Alla fine, il mystif rinunciò alla ricerca, e tornò sui suoi passi verso le strade sicure di Beatrix.

Gentle non uscì subito allo scoperto. Attese un altro quarto d'ora, fino a che i suoi occhi doloranti non scoprirono un movimento sul pendio di fronte a lui. Sembrava che l'osservatore stesse abbandonando la propria postazione, muovendosi lungo il retro della montagna. Gentle intravide la sua silhouette, mentre scompariva lungo il ciglio, quel tanto che bastava per aver conferma che l'altro era un umano, almeno nella forma se non nello spirito. Attese un altro minuto, poi cominciò a scendere lungo il pendio. Le sue estremità erano intirizzite, batteva i denti, il suo tronco era irrigidito dal freddo, ma camminava velocemente, cadendo e scendendo per parecchie decine di metri sulle natiche, facendo sussultare i doeki addormentati. Pie era di sotto, in attesa sulla porta della casa di Mamma Splendid. Due animali sellati e imbrigliati erano in attesa sulla strada, ed Efreet stava dando da mangiare a uno di loro una manciata di foraggio.

"Dov'eri andato?" volle sapere Pie. "Sono venuto a cercarti."

"Dopo," disse Gentle. "Devo scaldarmi."

"Non c'è tempo," replicò Pie. "L'accordo è che prendiamo i doeki, il cibo e i giubbotti e ce ne andiamo immediatamente."

"All'improvviso sono molto ansiosi di sbarazzarsi di noi."

"Proprio così," disse una voce oltre gli alberi di fronte alla casa, Un negro con occhi bianchi e magnetici venne avanti.

"Tu sei Zacharias?"

"Sì, sono io."

"Sono Coaxial Tasko, detto il Disgraziato. I doeki sono vostri. Ho dato al mystif dei rifornimenti per il viaggio, ma per favore... non dite a nessuno che siete stati qui."

"Pensa che portiamo sfortuna," spiegò Pie.

"Potrebbe avere ragione," disse Gentle. "Posso stringerle la mano, signor Tasko, o anche questo porta sfortuna?"

"Può stringermi la mano," disse l'uomo.

"Grazie per i mezzi di trasporto. Le giuro che non diremo a nessuno che siamo stati qui, Ma potrei volerla menzionare nelle mie memorie."

Un sorriso apparve sul volto severo di Tasko.

"Può fare anche questo," disse, stringendo la mano di Gentle. "Ma non prima che io sia morto, intesi? Non mi piacciono le indagini minuziose."

"È giusto."

"Ora, vi prego... prima ve ne sarete andati, prima potremo fingere di non avervi mai visti."

Efreet si fece avanti portando un giaccone, che Gentle indossò. Gli arrivava fino agli stinchi, e puzzava intensamente come l'animale che vi era nato dentro, ma fu lo stesso molto gradito.

"Mamma vi dà l'arrivederci," disse il ragazzo a Gentle. "Non uscirà a salutarvi." Abbassò la voce in un sussurro imbarazzato. "Sta piangendo."

Gentle fece un movimento verso la porta, ma Tasko lo fermò. "Per favore, signor Zacharias, niente indugi," disse. "Ora andate, con la nostra benedizione o senza."

"Fa sul serio," disse Pie salendo sul suo doeki, e l'animale gettò uno sguardo al suo cavaliere mentre lo montava. "Dobbiamo andare."

"Non discutiamo nemmeno il percorso?"

"Tasko mi ha dato una bussola e delle indicazioni," disse il mystif. "Prenderemo quella strada," aggiunse indicando uno stretto sentiero che portava fuori dal villaggio.

Riluttante, Gentle mise il piede nella staffa di cuoio del doeki e si issò in sella. Solo Efreet uscì ancora a salutarlo, sfidando l'ira di Tasko, per mettere la mano in quella di Gentle.

"Ci vedremo a Patashoqua, un giorno," disse.

"Lo spero," replicò Gentle.

Finiti i commiati, a Gentle rimase la sensazione di una conversazione interrotta a metà, e forse destinata a rimanere tale per sempre. Se non altro, però, se ne stavano andando dal villaggio meglio preparati ai territori che li aspettavano di quando erano arrivati.

 

"Cos'è questa storia?" chiese Gentle a Pie, quando si trovarono sulla cresta sopra Beatrix, dove il sentiero stava per girare portandosi via la vista delle sue strade tranquille, illuminate dalle lampade.

"Un battaglione dell'esercito dell'Autarca sta passando attraverso le montagne, diretto a Patashoqua. Tasko aveva paura che la presenza di stranieri nel paese potesse fornire ai soldati il pretesto per saccheggiarlo."

"Allora è questo il rumore che ho sentito sulla montagna."

"È questo che hai sentito."

"E ho visto qualcuno sull'altra montagna. Potrei giurare che stava cercando me. No, questo non è esatto. Non me, ma qualcuno. È per questo che non ho risposto quando sei venuto a cercarmi."

"Hai idea di chi fosse?"

Gentle scosse la testa. "Ho solo sentito il suo sguardo. Poi ho intravisto qualcuno sulla cresta. Chissà? Ora che ne parlo, mi sembra assurdo."

"Non c'era niente di assurdo nei rumori che ho sentito io. La cosa migliore che possiamo fare è uscire da questa regione il più presto possibile."

"D'accordo."

"Tasko ha detto che c'è un posto, a nord-est di qui, dove il confine del Terzo entra in questo Dominio per un bel tratto, forse mille miglia. Se riuscissimo a raggiungerlo, potremmo accorciare il nostro viaggio."

"Mi pare ottimo."

"Ma significa valicare il Passo Alto."

"Mi pare pessimo."

"Sarà più veloce."

"Sarà fatale," disse Gentle. "Voglio vedere Yzordderrex, non voglio morire congelato sullo Jokalaylau."

"Allora prendiamo la strada più lunga?"

"Io voto così."

"Aggiungerà due o tre settimane al nostro viaggio."

"E anni alle nostre vite," replicò Gentle.

"Come se non avessimo vissuto abbastanza," osservò Pie.

"La mia filosofia è sempre stata che non si vive mai abbastanza, né si sono mai amate troppe donne."

 

I doeki erano cavalcature obbedienti e dal passo sicuro, che superavano ogni percorso, sia che fosse fangoso, polveroso o sassoso, apparentemente indifferenti ai burroni che si spalancavano a pochi centimetri dai loro zoccoli e, un attimo dopo, alle acque spumose che formavano anse al loro fianco. E tutto ciò al buio, perché, sebbene le ore passassero e il sole dovesse già essere oltre le colline, il cielo iridescente nascondeva la sua gloria in una tenebra priva di stelle.

"È possibile che le notti siano più lunghe qui di quanto non fossero sull'autostrada?" si chiese Gentle.

"Pare di sì," rispose Pie. "Le mie viscere mi dicono che il sole sarebbe dovuto sorgere ore fa."

"Calcoli sempre il passare del tempo ascoltandoti le viscere?"

"Sono più affidabili della tua barba," replicò Pie.

"Da che parte proverrà la luce quando arriverà?" chiese Gentle, girandosi sulla sella per scrutare l'orizzonte. Mentre si voltava a guardare la via per la quale erano venuti, dalle sue labbra sfuggì un gemito di dolore.

"Cosa c'è?" disse il mystif, facendo fermare il suo animale, e seguendo lo sguardo di Gentle.

Non ci fu bisogno di parole. Una colonna di fumo nero si stava levando dal fondo delle montagne, i suoi pennacchi più bassi misti a fuoco. Gentle stava già scendendo di sella e arrampicandosi sulle rocce per capire meglio l'origine di quella visione. Indugiò solo pochi secondi prima di scendere, sudato e affannato.

"Dobbiamo tornare indietro."

"Perché?"

"Beatrix sta bruciando."

"Come fai a dirlo da questa distanza?" chiese Pie.

"Lo so, dannazione! Beatrix sta bruciando! Dobbiamo tornare indietro." Salì sul doeki e iniziò a farlo girare su se stesso sullo stretto sentiero.

"Aspetta," esclamò Pie. "Maledizione, aspetta!"

"Dobbiamo aiutarli," disse Gentle, contro la parete di roccia. "Sono stati buoni con noi."

"Solo perché volevano mandarci via!" replicò Pie.

"Bene, ora il peggio è accaduto, e noi dobbiamo fare quel che possiamo."

"Un tempo eri più razionale."

"Cosa significa: eri? Tu non sai niente di me, perciò non metterti a sparare giudizi. Se non vuoi venire con me, vai a farti fottere!"

Ora il doeki era completamente girato, e Gentle lo colpì con i talloni nel fianco per fargli aumentare la velocità. Lungo il percorso c'erano stati solo tre o quattro punti in cui la strada si era biforcata. Era sicuro di poter ripercorrere il sentiero fino a Beatrix senza troppi problemi. E poi, se aveva ragione, ed era la città quella che stava bruciando davanti a lui, avrebbe avuto la colonna di fumo a fargli da tetra indicazione. Pie lo seguì, dopo un po', come Gentle aveva immaginato. Il mystif era felice di sentirsi chiamare amico, ma in qualche punto del suo animo era uno schiavo.

Durante il viaggio non parlarono, cosa poco sorprendente dato il tenore del loro ultimo dialogo. Solo una Volta quando superarono una cima dalla quale si vedevano tutte le colline davanti a loro, e la valle nella quale era arroccata Beatrix non era ancora visibile ma fonte inequivocabile del fumo, Pie mormorò: "Perché sempre il fuoco?" e Gentle si rese conto di quanto fosse stato insensibile alla riluttanza di Pie a fare marcia indietro.

La devastazione che senza dubbio li aspettava era un'eco del fuoco nel quale era morta la sua famiglia adottiva: una questione che non era mai stata affrontata tra loro.

"Vuoi che da qui vada avanti senza di te?" chiese Gentie.

Pie scosse la testa. "Insieme o niente," disse.

Da quel punto in poi la strada divenne più facile. Le pendenze erano più miti e il terreno stesso più agevole, e c'era anche luce in cielo, mentre l'alba, dopo il lungo ritardo, arrivava. Quando misero finalmente gli occhi sui resti di Beatrix, la gloriosa coda di pavone che Gentle aveva ammirato per la prima volta nei cieli sopra Patashoqua era ormai alta, e il suo splendore rendeva ancora più cupa la scena sottostante. Beatrix stava ancora bruciando qua e là, ma il fuoco aveva consumato la maggior parte delle case e i loro pergolati di betulla-bambù. Gentle fece fermare il doeki e osservò il luogo dalla sua posizione sopraelevata. Dei distruttori non v'era traccia.

"Da qui a piedi?" chiese Gentle.

"Direi di sì."

Legarono le bestie e scesero verso il villaggio. Il suono dei lamenti li raggiunse prima ancora che si fossero avvicinati alle case: i singhiozzi che scaturivano dalle tenebre del fumo ricordarono a Gentle i suoni che aveva udito mentre era all'erta sulla collina. La distruzione intorno a loro era in qualche modo una conseguenza di quell'incontro cieco, lo sentiva. Anche se aveva evitato l'occhio dell'osservatore nell'oscurità, la sua presenza era stata avvertita, ed era stata sufficiente a portare quella calamità su Beatrix. "È colpa mia..." disse. "Che Dio mi aiuti... è colpa mia." Si girò verso il mystif, che stava in piedi in mezzo alla strada, con il viso esangue e privo di espressione.

"Rimani qui," disse Gentle. "Vado a cercare la famiglia." Pie non ebbe alcuna reazione, ma Gentle immaginò che avesse compreso quanto egli aveva detto, e si diresse verso la casa degli Splendid. Non era stato soltanto il fuoco a distruggere Beatrix. Alcune case erano state rovesciate, senza essere bruciate e i boschetti attorno a esse sradicati. Non c'erano però segni di morti violente, e Gentle cominciò a sperare che Coaxial Tasko avesse persuaso gli abitanti del villaggio a nascondersi tra i monti prima che i profanatori di Beatrix apparissero nella notte.

Questa speranza venne meno quando Gentle arrivò al luogo in cui si trovava la casa degli Splendid. Era stata distrutta pietra per pietra come le altre, e il fumo che proveniva dal suo legname bruciato aveva nascosto a Gentle fino a quel momento l'orrore che adesso era accatastato davanti a lui. Lì si trovava la brava gente di Beatrix, ammucchiata insieme in una catasta insanguinata più alta di lui. In cima c'era qualche sopravvissuto in lacrime, che cercava i suoi cari nella confusione dei corpi spezzati; alcuni afferravano le membra che pensavano di riconoscere, altri erano semplicemente inginocchiati sul terriccio insanguinato e intonavano un lamento funebre. Gentle camminò intorno alla catasta cercando tra i dolenti un viso conosciuto. Un tipo che aveva visto ridere allo spettacolo dei burattini stava cullando tra le braccia una moglie o sorella il cui corpo era senza vita come i burattini che gli avevano dato tanto piacere. Un altro, una donna, si stava aprendo un varco tra i corpi, gridando il nome di qualcuno. Gentle andò ad aiutarla, ma lei gli gridò di stare lontano. Mentre si ritraeva Gentle vide Efreet. Il ragazzo era nella catasta, con gli occhi aperti e la bocca che era stata il veicolo di un entusiasmo tanto puro rientrata nella faccia a forza, probabilmente colpita dal calcio di un fucile o da uno stivale. In quel momento Gentle non desiderò altro, neanche la vita stessa, quanto poter trovare il bastardo che aveva fatto quello scempio. Sentì il calore della voglia di uccidere ardergli in gola, il desiderio sfrenato di essere senza pietà.

Si allontanò dalla catasta, cercando un bersaglio qualsiasi, non necessariamente l'assassino. Qualcuno con un'arma o un'uniforme, un uomo che potesse chiamare nemico. Non ricordava di essersi mai sentito così prima, ma d'altra parte non aveva mai posseduto il potere che aveva ora o piuttosto, se si voleva credere a quanto diceva Pie, che aveva sempre avuto senza saperlo, e per quanto quegli orrori fossero dolorosi, era un sollievo sapere che in lui esisteva una tale capacità di purificazione; che i suoi polmoni, la sua gola e le sue mani potevano rimuovere la colpa dalla vita con tale facilità. Si allontanò dal cumulo di carne, pronto a trasformarsi in carnefice alla prima occasione.

La strada svoltava, lui ne seguì le convulsioni e girando un angolo si trovò la via sbarrata da una delle macchine da guerra degli invasori. Si bloccò immediatamente, aspettandosi che girasse i suoi occhi d'acciaio su di lui. Era una perfetta macchina di morte, con una corazza da granchio, le ruote irte di falci insanguinate, la torretta coronata di armi. Ma la morte, aveva già trovato l'assassino. Dalla torretta si levava del fumo, e il carrista giaceva dove il fuoco l'aveva trovato, nell'atto di uscire a tentoni dallo stomaco della sua macchina. Una vittoria ben piccola, sì, ma che provava per lo meno che le macchine avevano i loro punti deboli. Un giorno, quella consapevolezza avrebbe potuto rappresentare la differenza tra la speranza e la disperazione. Gentle stava per voltare le spalle alla macchina quando si sentì chiamare per nome, e Tasko apparve da dietro la carcassa in fumo. Disgraziato aveva il viso insanguinato e i vestiti coperti di polvere.

"Hai scelto il momento sbagliato, Zacharias," disse. "Te ne sei andato troppo tardi e ora torni troppo tardi."

"Perché hanno fatto questo?"

"L'Autarca non ha bisogno di ragioni."

"È stato qui?" chiese Gentle. Il pensiero che il Macellaio di Yzordderrex fosse stato a Beatrix gli fece battere il cuore più velocemente. Ma Tasko disse: "Chi lo sa? Nessuno ha mai visto la sua faccia. Forse è stato qui ieri, a contare i bambini, e nessuno lo ha notato."

"Sai dov'è mamma Splendid?"

"Da qualche parte nel mucchio."

"Gesù..."

"Non sarebbe stata una buona testimone. Era pazza di dolore. Hanno lasciato in vita quelli che avrebbero raccontato meglio la storia. Le atrocità hanno bisogno di testimoni, Zacharias. Di gente che diffonda le notizie."

"L'hanno fatto per dare un avvertimento?" disse Gentle.

Tasko scosse il testone. "Non so come funzionino le loro menti," rispose.

"Forse dobbiamo cercare di capirlo, in modo da poterli fermare."

"Preferirei morire," replicò l'uomo, "che comprendere una porcheria come quella. Se tu ne hai la voglia, allora vai a Yzordderrex. Lì ti farai una cultura."

"Io voglio aiutare qui," disse Gentle. "Deve esserci qualcosa che posso fare."

"Puoi lasciarci a piangere i nostri morti."

Se esisteva un commiato più definitivo, Gentle non lo aveva mai udito. Cercò qualche parola di conforto o di scusa, ma di fronte a una tale devastazione solo il silenzio pareva appropriato. Abbassò il capo lasciando a Tasko il compito di fare da testimone e tornò sui propri passi passando accanto al mucchio di cadaveri, fino a dove era fermo Pie'oh'pah. Il mystif non si era mosso di un centimetro, e anche quando Gentle giunse di fronte a lui e gli disse pacatamente che dovevano andare, ci volle molto tempo prima che Pie si guardasse attorno.

"Non avremmo dovuto tornare indietro," disse.

"Ogni giorno che sprechiamo, moltiplicherà i massacri..."

"Pensi che potremmo impedirli?" chiese Pie, con una punta di sarcasmo.

"Non faremo la strada lunga, passeremo per le montagne. Risparmieremo tre settimane."

"È così, vero?" insisté Pie. "Tu pensi che possiamo fermare tutto questo."

"Non moriremo," disse Gentle, mettendo un braccio sulle spalle di Pie'oh'pah. "Non lo permetterò. Sono venuto qui per capire e ci riuscirò."

"Per quanto tempo ancora potrai sopportare tutto questo?"

"Per tutto il tempo necessario."

"Potrei dovertelo ricordare."

"Lo ricorderò," disse Gentle. "Dopo questo, ricorderò tutto."

 

21

 

I

 

Il Rifugio nella Proprietà Godolphin era stato costruito in un'epoca di imprese folli, quando i figli maggiori dei ricchi e dei potenti, non avendo guerre che li distraessero, si divertivano a dissipare i guadagni di generazioni in costruzioni la cui unica funzione era quella di lusingare il loro io. La maggior parte di queste pazzie, progettate senza tenere conto dei principi architettonici di base, andarono in polvere davanti ai loro progettisti. Alcune di esse divennero invece famose anche nell'abbandono, o perché qualcuno legato ad esse era vissuto o morto nella notorietà, o perché erano state teatro di un qualche dramma. Il Rifugio aveva entrambe le caratteristiche. Il suo architetto, Geoffrey Light, era morto sei mesi dopo il suo completamento, soffocato da una palla di toro nelle regioni selvagge di West Riding, un fatto grottesco che aveva suscitato una certa curiosità. Proprio come la progressiva fuga dal mondo del protettore di Light, Lord Joshua Godolphin, il cui declino verso la pazzia fu argomento di conversazione a corte e nei caffè per molti anni. Il Lord aveva attirato i pettegolezzi anche quando era all'apice del fulgore, soprattutto perché amava intrattenersi con i maghi. Cagliostro, il Conte di Saint-Germain, e persino Casanova (secondo l'opinione generale, taumaturgo di non poco conto) oltre a una schiera di medicastri meno conosciuti avevano trascorso parecchio tempo nella sua Proprietà.

Sua Eccellenza non faceva mistero delle sue ricerche occulte, anche se la gente non seppe mai quale fosse l'attività di cui si occupava veramente. Si pensava che tenesse alla compagnia di quei ciarlatani per le loro doti di intrattenitori. Quali che fossero le sue ragioni, il fatto che si fosse sottratto così improvvisamente agli sguardi di tutti attirò ulteriore attenzione sulla sua ultima debolezza, la folle costruzione che Light aveva progettato per lui. Un anno dopo la sua morte, venne alla luce un diario che si diceva appartenesse all'architetto morto soffocato: conteneva una descrizione delle fasi di costruzione del Rifugio. Originale o no, era una lettura decisamente bizzarra. Diceva che le fondamenta erano state gettate sotto stelle che, secondo i calcoli astrologici, erano particolarmente propizie; i muratori cercati e assunti in una dozzina di città diverse avevano dovuto garantire il silenzio con un giuramento di una ferocia arabica. Le pietre stesse erano state battezzate una per una in una mistura di latte e incenso; un agnello era stato lasciato libero di vagare per tre volte nell'edificio in costruzione, e l'altare e l'acquasantiera erano stati posti dove l'animale aveva poggiato il suo capo innocente.

Naturalmente questi particolari vennero presto corrotti dalle voci che ne nacquero e che attribuirono all'edificio scopi satanici. Il liquido usato per consacrare le pietre divenne sangue di neonato, e il luogo scelto per costruire l'altare divenne la tomba di un cane pazzo. Sigillato dietro alle alte mura del suo sacrario, Lord Godolphin probabilmente non ebbe mai la minima idea delle voci che circolavano, fino a quando, nel settembre di due anni esatti dopo il suo ritiro, gli abitanti di Yoke, il paese più vicino alla Proprietà, avendo bisogno di un capro espiatorio cui imputare il misero raccolto e infiammati da un brano di Ezechiele recitato dal pulpito della parrocchia, passarono la domenica pomeriggio a organizzare una crociata contro l'edificio del Diavolo, e scalarono i cancelli della Proprietà per radere al suolo il Rifugio. Non trovarono nessuna delle empietà immaginate. Nessuna croce capovolta; nessun altare macchiato di sangue virginale. Ma ormai, visto che erano entrati abusivamente, fecero tutti i danni che furono in grado di infliggere per pura ripicca e rifarsi della frustrazione, incendiando alla fine delle balle di fieno nel mezzo del grande mosaico. Le fiamme riuscirono soltanto a lambire il luogo annerendolo, ma da quel pomeriggio il Ritiro si guadagnò il suo soprannome: la Cappella Nera, o il Peccato di Godolphin.

 

II

 

Se Jude avesse saputo qualcosa della storia di Yoke, avrebbe certamente cercato i segni delle sue ripercussioni nel villaggio, mentre lo attraversava alla guida di un'auto. Avrebbe dovuto guardare a fondo, ma di segni ne erano rimasti. Praticamente non esisteva casa entro i suoi confini che non avesse una croce scolpita sulla chiave di volta dell'arco sopra la porta, o un ferro di cavallo cementato nel gradino davanti alla soglia. Se avesse avuto il tempo di fermarsi nel cortile della chiesa, avrebbe trovato le iscrizioni sulle lapidi che supplicavano il Buon Dio di tenere il Diavolo lontano dai vivi anche quando chiamava i morti al Suo seno; e, sulla pietra accanto al cancello, un cartello in cui si annunciava che il sermone della domenica seguente sarebbe stato su L'Agnello nelle nostre vite, come per bandire qualsiasi pensiero sul caprone infernale.

Ma lei non vide nessuno di questi segni: erano la strada e l'uomo accanto a lei a monopolizzare la sua attenzione, insieme al cane sul sedile posteriore.

Convincere Estabrook a portarla lì era stata un'ispirazione improvvisa, ma dietro a essa si celava una logica ferrea. Lei sarebbe stata per Charlie la libertà di un giorno, lo avrebbe trasferito dal calore stantio della clinica all'aria tonificante di gennaio.

Sperava che, una volta all'aperto, l'uomo avrebbe parlato più liberamente della sua famiglia, e in particolare del fratello Oscar. Quale luogo migliore per indagare innocentemente sui Godolphin e la loro storia, del suolo su cui gli antenati avevano costruito la loro casa?

La Proprietà si trovava un chilometro dietro al villaggio, su una strada privata che portava a un cancello assediato, persino in quella stagione sterile, da un esercito verde di arbusti e piante rampicanti. I cancelli veri e propri erano stati rimossi da tempo, e contro i vandali era stata eretta una difesa assai meno elegante: tavole e lamiera ondulata coronate dal filo spinato. I temporali dei primi di dicembre avevano abbattuto gran parte della barricata, e, una volta parcheggiata l'auto e avvicinatisi entrambi al cancello - con Pelle che saltellava davanti a loro, abbaiando gioiosamente -, divenne chiaro che l'accesso sarebbe stato agevole solo se avessero osato sfidare rovi e ortiche.

"È uno spettacolo triste," osservò Jude. "Deve essere stata magnifica."

"Non ai miei tempi," tenne a precisare Estabrook.

"Vuoi che faccia strada?" suggerì lei, raccogliendo un ramo caduto e strappandone i ramoscelli.

"No, lascia fare a me," replicò Estabrook, togliendole di mano il bastone e aprendosi un varco tranciando le ortiche senza pietà.

Jude seguì la sua scia verde. Una certa allegria si stava impadronendo di lei man mano che procedeva verso i pilastri del cancello: la imputò alla vista di Estabrook così preso da quell'avventura. Era un uomo molto diverso rispetto al guscio vuoto abbandonato su una sedia che lei aveva visto due settimane prima. Mentre Charlie si arrampicava sui frammenti di legno caduti, le offrì la mano, e come innamorati in cerca di un luogo appartato attraversarono la barriera rotta ed entrarono nella Proprietà.

Jude si aspettava uno spazio aperto: un viale d'accesso che accompagnasse l'occhio fino alla casa. In effetti, un tempo avrebbe forse potuto godere di una vista simile. Ma duecento anni di pazzie ancestrali, di cattiva amministrazione e di abbandono avevano trasformato la simmetria in caos, il parco in una giungla. Quelli che una volta erano stati boschetti sistemati ad arte, creati per svaghi all'ombra, si erano propagati ed erano divenuti boscaglie impenetrabili. Le siepi che una volta venivano livellate alla perfezione erano adesso macchioni intricati. Numerosi altri membri della nobiltà di campagna, non più in grado di mantenere la dimora di famiglia, avevano trasformato le loro proprietà in parchi da safari, importando la fauna dall'impero perduto e facendola vagare dove in tempi migliori brucavano i cerbiatti. Agli occhi di Jude l'effetto di tali sforzi era invariabilmente patetico. I parchi erano sempre troppo curati, le querce e i sicomori uno sfondo inadatto a leoni o babbuini. Ma lì, pensò, era possibile immaginare degli animali selvatici a zonzo. Era come un paesaggio straniero nel bel mezzo dell'Inghilterra.

Il tragitto fino alla casa non era breve, ma Estabrook stava già avanti, con Pelle in avanscoperta. Jude si domandò quali visioni avesse in mente Charlie, per spingersi avanti con tale entusiasmo. Il passato, forse; gite dell'infanzia? O ancora prima, giorni di gloria di High Yoke, quando la strada che stavano percorrendo era stata ghiaia rastrellata, e la casa davanti a loro luogo d'incontro per ricchi e potenti?

"Venivi spesso qui quando eri bambino?" gli chiese Jude, mentre si aprivano a fatica un varco nell'erba.

Estabrook si girò verso di lei in preda a una momentanea confusione, come se avesse dimenticato che con lui c'era qualcun altro.

"Non spesso," disse. "Ma mi piaceva. Era come un parco giochi. Più tardi, ho pensato di venderlo, ma Oscar non me lo ha mai permesso. Aveva le sue ragioni, naturalmente..."

"E quali erano?" gli chiese lei, senza fare troppo pesare la domanda.

"Francamente, sono contento che l'abbiamo lasciato a se stesso. Così è più bello."

Estabrook continuò a camminare, agitando il bastone come un machete. Quando si avvicinarono alla casa, Jude poté vedere in quale stato pietoso si trovasse. Le finestre erano sparite, il tetto era ridotto a un reticolato di legno, le porte vacillavano sui cardini come ubriache. Tutto ciò sarebbe stato già triste in una casa qualsiasi, ma risultava quasi tragico in una dimora che un tempo era stata tanto sontuosa. Tra le nuvole che si dissolvevano, il sole si fece più forte e, quando entrarono nell'atrio, i suoi raggi invasero la stanza attraverso il reticolato, la cui geometria contrastava in modo perfetto con la scena sottostante. La scalinata, sebbene coperta di pietrisco, si ergeva ancora ampia fino a un ammezzato che un tempo era stato dominato da una finestra degna di una cattedrale. Adesso la vetrata era stata distrutta da un albero caduto molti inverni prima, le estremità avvizzite del quale giacevano nel punto in cui il Lord e la Lady dovevano essere soliti fermarsi prima di discendere a salutare i loro ospiti. Il rivestimento a pannelli dell'ingresso e dei corridoi che partivano di lì era ancora intatto, e le tavole parevano solide sotto i piedi dei due visitatori. Nonostante il tetto in rovina, la struttura non appariva instabile. Era stata innalzata per servire i Godolphin per l'eternità: la fertilità della terra e dei loro lombi avrebbero preservato il nome fino a che il sole non si fosse spento. Era stata la carne a venire meno, non ciò che la circondava.

Estabrook e Pelle si diressero verso la sala da pranzo, che era grande quanto quella di un ristorante. Jude li seguì per un po', ma venne poi attirata dalla scalinata. Tutto ciò che sapeva sul periodo nel quale la casa prosperava, lo aveva appreso dai film e dalla televisione, ma la sua immaginazione affrontò la sfida con ardore sorprendente, creando figurazioni mentali tanto intense da sostituire del tutto la triste verità. Quando salì le scale, accarezzando non senza un certo senso di colpa i propri sogni aristocratici, poté vedere l'atrio sottostante illuminato dalla luce delle candele, poté udire le risate dal pianerottolo superiore, e mentre scendeva vide la seta delle sue gonne sfiorare il tappeto. Qualcuno la chiamò da un'entrata, e lei si girò aspettandosi di vedere Estabrook, ma sia colui che la chiamava, sia il nome che le aveva dato erano immaginari. Nessuno s'era mai sognato di chiamarla Pescaprugna.

Si sentì leggermente turbata, e andò alla ricerca di Estabrook, sia per riprendere contatto con la solida realtà, sia per avere la sua compagnia. Lui si trovava in quella che era stata sicuramente una sala da ballo, una delle cui pareti era costituita da una fila di finestre alte fino al soffitto, che offrivano una vista di terrazze e giardini geometrici fino a un gazebo diroccato. Judith andò al suo fianco e lo prese sottobraccio. I loro respiri divennero una nuvola unica, dorata dal sole attraverso il vetro scheggiato.

"Dev'essere stata stupenda," disse lei.

"Certo che lo è stata." Tirò rumorosamente su col naso. "Ma non esiste più."

"Potrebbe essere restaurata."

"Ci vorrebbe una fortuna."

"Ma tu possiedi una fortuna."

"Non così grande."

"E Oscar?"

"No. Questa casa è mia. Lui può andare e venire, ma la casa è mia. Era nei patti."

"Quali patti?" chiese lei. Estabrook non rispose. Judith insistette, a parole e con la sua vicinanza. "Dimmelo," disse. "Confidati con me."

Lui tirò un respiro profondo. "Sono più vecchio di Oscar, e c'è una tradizione di famiglia che risale ai tempi in cui questa casa era intatta secondo la quale il figlio maggiore, o la figlia se non ci sono maschi, diventa membro di una società che si chiama Tabula Rasa."

"Non l'ho mai sentita nominare."

"Sono sicuro che i soci vogliono così. Non dovrei raccontarti niente di tutto questo, ma al diavolo. Non mi interessa più. E tutta storia vecchia. Io sarei dovuto entrare a far parte della Tabula Rasa, ma Papà mi ha esautorato a favore di Oscar."

"Perché?"

Charlie abbozzò un sorriso. "Che tu ci creda o no, pensavano che fossi inaffidabile. Io. Riesci a immaginartelo? Avevano paura che sarei stato indiscreto." Il sorriso divenne una risata. "Bene, che vadano tutti a farsi fottere. Io sarò indiscreto."

"Che cosa fa questa Società?"

"È stata fondata per evitare... lascia che ricordi le parole esatte... per evitare la contaminazione del suolo inglese. Joshua amava l'Inghilterra."

"Joshua?"

"Il Godolphin che ha costruito questa casa."

"Chi pensava fosse causa di questa contaminazione?"

"Chi lo sa? I cattolici? I francesi? Era pazzo, come la maggior parte dei suoi amici. Allora erano di moda le società segrete..."

"Ed è ancora attiva?"

"Immagino di sì. Non parlo con Oscar molto spesso, e quando lo faccio non accenniamo mai alla Tabula Rasa. È un uomo strano, In effetti, è molto più pazzo di me. Solo che lo nasconde meglio."

"Anche tu lo nascondevi molto bene, Charlie," gli ricordò lei.

"È stato stupido da parte mia. Avrei dovuto sfogarmi. Avrei potuto tenerti con me." Le mise una mano sul viso. "Sì sono stato proprio stupido, Judith. Non posso ancora credere alla fortuna che tu mi abbia perdonato."

Sentire che era tanto commosso dai suoi raggiri fece sentire Judith leggermente in colpa. Se non altro, però, erano stati raggiri che avevano portato a qualche risultato. Adesso aveva aggiunto due nuovi pezzi al puzzle: la Tabula Rasa e la sua ragion d'essere.

"Tu credi nella magia?" gli chiese.

"Vuoi il vecchio Charlie o quello nuovo?"

"Quello nuovo. Quello pazzo."

"Allora sì, credo di sì. Quando Oscar portava i suoi regalini, mi diceva: eccoti un pezzo del miracolo. La maggior parte di quei regali li gettavo... tranne quelli che hai trovato tu. Non volevo sapere da dove li aveva presi..."

"Non glielo hai mai chiesto?" disse lei.

"Alla fine l'ho fatto. Una notte quando tu non c'eri e io ero ubriaco, lui è venuto con quel libro che hai trovato nella cassaforte; allora gli ho chiesto apertamente dove avesse preso quella merda. Non volevo affatto credere a ciò che mi disse. Lo sai che cosa mi ha convinto?"

"No. Cosa?"

"Il corpo nella brughiera. Te ne ho parlato, non è vero? Io li ho osservati scavare nel sudiciume e sotto la pioggia per due giorni e continuavo a pensare: che vita schifosa è questa. Nessuna via di scampo, se non con i piedi in avanti. Ero pronto a tagliarmi le vene, e probabilmente l'avrei fatto, se non fossi arrivata tu a ricordarmi come mi ero sentito quando ti ho vista per la prima volta. Ho avuto la sensazione che stesse accadendo qualcosa di miracoloso, come se stessi chiedendo la restituzione di qualcosa che avevo perduto. E ho pensato: se credo in un miracolo, tanto vale credere in tutti. Anche in quelli di Oscar. Anche ai suoi discorsi sull'Imagica, e sui Domini dell'Imagica, e sulla gente che c'è lì, e le città. Ho semplicemente pensato: perché no?... comprendere tutto prima di perderne la possibilità? Prima di diventare un corpo steso fuori alla pioggia."

"Non morirai nella pioggia."

"Non mi interessa dove muoio, Jude, mi interessa dove vivo, e voglio vivere con una speranza. Voglio vivere con te."

"Charlie..." lo rimproverò lei dolcemente, "non dovremmo parlare di questo ora."

"Perché no? Quale momento migliore? So che mi hai portato qui perché hai delle domande cui vuoi trovare una risposta, e non te ne faccio una colpa. Se avessi visto un dannato assassino che mi dava la caccia, anch'io avrei delle domande da fare. Ma pensaci, Judy, è l'unica cosa che ti chiedo. Pensa se il nuovo Charlie vale un po' del tuo tempo. Lo farai?"

"Lo farò."

"Grazie," disse lui e, prendendo la mano che gli aveva messo sottobraccio, ne baciò le dita.

"Ora conosci la maggior parte dei segreti di Oscar," disse. "Tanto vale che tu li conosca tutti. Vedi quel boschetto verso il muro? Quella è la sua piccola stazione ferroviaria, il luogo da cui prende il treno per tutte le sue destinazioni."

"Mi piacerebbe vederlo."

"Facciamo un giretto da quelle parti signora?" chiese lui. "Dov'è andato il cane?" Fischiò e Pelle arrivò di corsa, sollevando la polvere dorata. "Perfetto. Andiamo a prendere una boccata d'aria."

 

III

 

Il pomeriggio era talmente luminoso che era facile immaginare quale luogo di beatitudine avrebbe potuto essere quel posto, anche nel suo attuale decadimento, in primavera o in estate, con i semi di soffione e il canto degli uccelli nell'aria e nelle serate lunghe e miti. Anche se era ansiosa di vedere il luogo che Estabrook aveva descritto come la stazione ferroviaria di Oscar, Jude non affrettò il passo. Passeggiarono piano, come aveva suggerito Charlie, prendendosi il tempo di guardare e apprezzare la casa. Vista da lì sembrava ancora più imponente, con le terrazze che si innalzavano fino alla fila di finestre della sala da ballo. Il bosco davanti a loro non era grande, ma i cespugli e gli alberi fìtti nascosero la loro meta fino a che non si trovarono sotto la volta ombrosa a calpestare il marciume umido delle precipitazioni dell'ultimo settembre. Solo allora Jude si rese conto di quale edificio si trattasse. Lo aveva già visto innumerevoli volte, disegnato in pianta e appeso davanti alla cassaforte.

"Il Rifugio," disse.

"Lo riconosci?"

"Naturalmente."

Sugli alberi sopra di loro, gli uccelli cantavano e, ingannati dal tepore, cominciavano a intonare i richiami del corteggiamento. Quando guardò verso l'alto, a Jude parve che i rami formassero una volta traforata sopra al Rifugio, quasi a imitazione della cupola. Con quei due elementi, volta e canti degli uccelli, il luogo assumeva un aspetto quasi sacro.

"Oscar la chiama Cappella Nera," disse Charlier. "Non mi chiedere perché."

Non c'erano finestre, e, da quel lato, nessun ingresso. Dovettero girarvi intorno per un bel pezzo, prima di riuscire a intravedere la porta. Pelle stava ansimando sul gradino, ma quando Charlie aprì l'uscio il cane rifiutò di entrare.

"Codardo," disse l'uomo, precedendo Jude oltre la soglia. "E abbastanza sicuro."

All'interno, la sensazione di una presenza soprannaturale, che Judith aveva già sentito fuori, divenne ancora più intensa ma, nonostante tutto quello che aveva vissuto da quando Pie'oh'pah era entrato nella sua vita, la donna non era ancora ben preparata ad affrontare il mistero. La sua modernità la opprimeva. Sperò che ci fosse una qualche parte dimenticata di sé meglio preparata, un io da ripescare nel suo passato. Charlie aveva la sua schiatta, anche se ne aveva rinnegato il nome. I tordi sugli alberi all'esterno somigliavano in tutto e per tutto a quelli che avevano cantato lì da quando quei rami erano stati abbastanza forti da sostenerli. Ma lei era alla deriva, non somigliava a nessuno; nemmeno alla donna che era stata sei settimane prima.

"Non essere nervosa," disse Charlie, facendole cenno di entrare.

Parlava troppo forte per quel luogo; la sua voce corse lungo il vasto cerchio disadorno e tornò indietro più sonora. Estabrook sembrò non notarlo. Forse quell'indifferenza era dovuta soltanto alla familiarità, ma Jude pensava che così non fosse. Nonostante tutti i suoi discorsi sulla necessità di accettare i miracoli, Charlie restava sempre un pragmatico, ancorato al particolare. Quali che fossero le forze che si agitavano lì - e Jude le sentiva imperiosamente - lui era morto alla loro presenza. Niente: non se ne accorgeva neppure.

Avvicinandosi al Rifugio, Jude aveva pensato che fosse privo di finestre, ma si era sbagliata. Nell'intersezione del muro con la volta correva un cerchio di luce, come un'aureola. Per quanto piccole, quelle finestrine lasciavano passare un chiarore che riusciva ad arrivare al pavimento illuminandone il centro, dove la luce convergeva sul mosaico. Se quello era davvero un luogo di partenza, allora quel punto rarefatto era l'inizio del binario.

"Niente di speciale, vero?" osservò Charlie.

Jude stava per dissentire, cercando un modo per esprimere quello che provava, quando Pelle, che era rimasto fuori, iniziò ad abbaiare. Non era il guaito eccitato che aveva emesso per annunciare ogni volta un nuovo luogo per fare pipì lungo la strada, ma un vero allarme. Jude si diresse verso la porta, ma l'influsso della Cappella le rallentava i riflessi, e Charlie uscì prima che lei avesse raggiunto lo scalino, dicendo al cane di stare zitto. Pelle smise subito di abbaiare.

"Charlie?"

Non ci fu risposta. Zittito il cane, provò un senso di quiete ancora più grande. Gli uccelli avevano smesso di cantare.

Ripeté: "Charlie?" e, mentre lo faceva, qualcuno attraversò la soglia. Non era Charlie: quell'uomo barbuto, grande e grosso era uno sconosciuto. Il corpo di Judith reagì alla vista di lui con un fremito stupefatto di riconoscimento, come se si trovasse di fronte a un compagno perduto da tempo. Avrebbe potuto pensare d'essere pazza, se non avesse visto riflessa sul viso dell'uomo la stessa emozione. Il nuovo venuto la guardò strizzando gli occhi e piegando leggermente la testa.

"Tu sei Judith, vero?"

"Sì. E tu chi sei?"

"Oscar Godolphin."

Il respiro di Judith, da affannoso divenne profondo.

"Oh... grazie a Dio," disse. "Mi hai spaventata. Pensavo... non so cosa pensavo. Il cane ha cercato di attaccarti?"

"Lascia perdere il cane," disse Oscar entrando nella Cappella. "Ci siamo già visti?"

"Non credo," disse lei. "Dov'è Charlie? Sta bene?"

Godolphin continuò ad avvicinarsi a lei, con passo regolare. "Questo complica le cose," disse.

"Questo cosa?"

"Conoscerti. Tu sei quella che sei. Complica le cose."

"Non capisco perché," disse Judith. "Volevo conoscerti, e ho chiesto spesso a Charlie di presentarci, ma mi è sempre parso riluttante..." Continuò a chiacchierare sia per impedirgli di scrutarla, sia per non interrompere la comunicazione. Sentiva che, se fosse rimasta in silenzio, avrebbe dimenticato completamente se stessa; sarebbe divenuta il suo oggetto. "... Sono molto contenta che finalmente ci parliamo." Adesso era abbastanza vicino da toccarla. Jude stese la mano per stringere quella di lui. "È davvero un piacere," disse l'uomo.

All'esterno, il cane iniziò nuovamente ad abbaiare, e questa volta il suo strepitio venne seguito da un grido.

"Oh Dio, ha morso qualcuno," disse Jude, dirigendosi verso la porta. Oscar afferrò il suo braccio e quel contatto, leggero ma risoluto, la fermò. Judith si voltò a guardarlo, e tutti i ridicoli cliché dei romanzi d'amore divennero improvvisamente reali, e mortalmente seri. Il cuore le batteva in gola; le sue guance erano in fiamme; il terreno sembrò improvvisamente sfuggirle da sotto i piedi. Non c'era piacere in tutto questo, solo un'impotenza nauseante contro la quale non poteva difendersi in alcun modo. Il suo unico conforto (ed era ben poco) era che il partner in questa danza di desiderio pareva angosciato quanto lei dalla loro ossessione reciproca.

Qualcuno fece improvvisamente tacere il cane, e Judith udì Charlie gridare il suo nome. Lo sguardo di Oscar andò alla porta contemporaneamente a quello di lei per scorgere Estabrook che, armato di una mazza di legno, ansimava sulla soglia. Dietro di lui una cosa disgustosa: una creatura semibruciata, con il viso sfondato (capì che era stato Charlie; c'erano frammenti della sua carne annerita sulla mazza) che cercava ciecamente di afferrarlo.

Vedendolo, Jude emise un grido, e Charlie fece un passo di lato mentre la creatura barcollò in avanti, perse l'equilibrio sullo scalino e cadde. Una mano con le dita bruciate fino all'osso tentò di afferrarsi allo stipite della porta, ma Charlie lo colpì di nuovo con la sua arma sulla testa ferita. Volarono schegge di cranio; la testa cadde sul gradino, accompagnata da uno spruzzo di sangue argentato, la mano mancò il bersaglio e la creatura si accasciò sulla soglia.

Jude udì Oscar gemere silenziosamente.

"Bastardo!" disse Charlie. Ansimava e sudava, ma nei suoi occhi c'era una luce che Jude non vi aveva mai visto. "Lasciala stare," disse.

Jude sentì la presa di Oscar che lasciava il suo braccio e si rammaricò di quel distacco. Quello che aveva provato per Charlie era stato solo un preannuncio di ciò che sentiva adesso; come se lo avesse amato in memoria di un uomo che non aveva mai conosciuto. E ora che era accaduto, ora che aveva sentito la vera voce e non la sua eco, Estabrook le parve un misero sostituto, con tutto il suo tardivo eroismo.

Non sapeva da dove venissero quei sentimenti, ma avevano la forza di un istinto che lei non poteva negare. Fissò Oscar. Non era un uomo particolarmente attraente. Era sovrappeso, vestito in modo troppo ricercato e senza dubbio arrogante. Non certo il tipo di persona che lei avrebbe scelto, se ne avesse avuta la possibilità. Ma per qualche motivo che ancora non comprendeva, la facoltà di scelta le era stata negata. Una forza più profonda del desiderio cosciente aveva preso possesso della sua volontà. Le lacrime che aveva versato per la salvezza di Charlie, e in effetti anche per la sua, erano improvvisamente distanti; quasi astrazioni.

"Non fare caso a lui," disse Charlie. "Non ti farà del male."

Jude lo guardò. Accanto al fratello pareva un guscio vuoto, pieno di tic e di tremori. Come aveva mai potuto amarlo?

"Vieni qui," disse lui facendole cenno.

Lei non si mosse fino a che Oscar disse: "Vai."

Iniziò a camminare verso Charlie, più per obbedire alle istruzioni di Oscar che per suo desiderio.

Mentre camminava, un'altra ombra si proiettò sulla soglia. Un giovane vestito severamente, con capelli biondi tinti apparve sulla porta, i tratti del viso talmente perfetti al punto da risultare banali.

"Stai lontano, Dowd..." disse Oscar. "Questa è una cosa tra Charlie e me."

Dowd abbassò lo sguardo verso la creatura, poi verso Oscar, lasciando due parole di avvertimento: "È pericoloso."

"Lo so," disse Oscar. "Judith, perché non esci insieme a Dowd?"

"Non ti avvicinare a quello stronzetto," le disse Charlie. "Ha ucciso Pelle. E fuori ce n'è un altro."

"Si chiamano evacuatori, Charles," disse Oscar. "Non torceranno un capello della sua stupenda testa. Judith, guardami." Lei guardò verso di lui. "Non sei in pericolo. Capisci? Nessuno ti farà del male."

Lei capì e gli credette. Senza più guardare indietro verso Charlie, si diresse verso la porta. L'uccisore del cane si fece da parte, offrendole una mano per aiutarla a passare sopra il cadavere dell'evacuatore, ma lei la ignorò, e uscì al sole con una vergognosa leggerezza nel cuore e nel passo. Dowd la seguì mentre si allontanava dalla Cappella. Jude sentiva il suo sguardo.

"Judith..." disse Estabrook, come sorpreso.

"Io sono così," replicò lei, sapendo che asserire la propria identità era un gesto di grande importanza.

Accovacciato nell'humus poco lontano da loro, Jude vide l'altro evacuatore. Stava esaminando oziosamente il corpo di Pelle, seguendo con le dita i fianchi del cane. Lei guardò altrove, non volendo guastare con particolari orribili la strana gioia che provava.

Judith e Dowd avevano raggiunto il limite del bosco, dove si godeva una vista completa del cielo. Il sole stava calando, diventava color porpora e conferiva al parco, alle terrazze e alla casa un fascino nuovo.

"Mi sembra di essere già stata qui," disse lei.

Il pensiero era stranamente confortante. Come i sentimenti che provava per Oscar, nasceva da una parte di lei che non ricordava di avere, e individuare quella fonte non era per il momento così importante quanto accettarne la presenza. Cosa che lei fece con gioia. Ultimamente aveva trascorso così tanto tempo nella morsa di avvenimenti che sfuggivano al suo controllo, che era un piacere toccare una fonte di sensazioni tanto profonda e istintiva da non costringerla ad analizzarne i disegni. Era parte di lei, e perciò buona. Domani, forse, o il giorno dopo ancora, avrebbe vagliato più da vicino la sua importanza.

"Questo posto ti ricorda qualcosa in particolare?" le chiese Dowd.

Jude ci pensò su un po', poi rispose: "No. Ho solo la sensazione di... appartenere a questo luogo."

"Allora, forse è meglio non ricordare," fu la risposta. "Sai com'è la memoria. Può essere traditrice."

Quell'uomo non le piaceva, ma la sua osservazione era giusta. Judith ricordava a malapena gli ultimi dieci anni della sua vita; risalire più indietro le era praticamente impossibile. Se i ricordi fossero venuti lei li avrebbe bene accolti. Ma per ora si sentiva straboccare di sentimenti che forse erano ancora più allettanti perché misteriosi.

Dalla Cappella proveniva il suono di voci alterate, nonostante l'eco dell'interno e la distanza rendessero impossibile comprenderne il senso.

"Un po' di rivalità fraterna," osservò Dowd. "Come ci si sente a essere una donna contesa?"

"Non c'è nessuna contesa," replicò lei.

"Loro sembrano pensarla diversamente," disse lui.

Le voci erano ora urla sempre più alte; poi, improvvisamente, si tacitarono. Uno di loro stava parlando, Oscar, pensò lei, interrotto dalle esortazioni dell'altro. Stavano contrattando la sua persona, facendo offerte al rialzo o al ribasso? Cominciò a pensare di dover intervenire. Tornare alla Cappella e dire chiaro e tondo da chi si sentiva attratta, per quanto irrazionale ciò potesse essere. Meglio dire la verità subito, senza lasciare che Charlie mercanteggiasse a vuoto. Si voltò e prese a camminare verso la Cappella.

"Cosa stai facendo?" chiese Dowd.

"Devo parlare con loro."

"Il signor Godolphin ti ha detto..."

"L'ho sentito. Devo parlare con loro."

Alla sua destra vide l'evacuatore alzarsi, con gli occhi puntati non su di lei ma sulla porta aperta. Annusò l'aria, poi emise un fischio malinconico quanto un lamento e si diresse verso l'edificio procedendo a lunghi balzi, quasi da animale. Raggiunse la porta prima di Jude, calpestando, nella foga di entrare, il fratello morto. Quando Judith fu a un paio di metri dalla porta sentì l'aroma che aveva scatenato il lamento. Una brezza troppo calda per quella stagione e carica di profumi troppo strani per questo mondo le venne incontro fuori dalla Cappella, e con orrore si rese conto che la storia si stava ripetendo. All'interno il treno tra i Domini stava imbarcando i suoi passeggeri, e il vento che sentiva stava soffiando per lei.

"Oscar!" gridò Judith, inciampando sul corpo mentre si gettava all'interno.

I viaggiatori erano già partiti. Li vide scomparire alla vista come Gentle e Pie'oh'pah, con la differenza che l'evacuatore, nel disperato tentativo di seguirli, si gettò nel flusso del varco. Anche lei avrebbe potuto fare lo stesso, ma che fosse un errore le apparve subito evidente. Preso nel flusso, ma troppo in ritardo per essere trasportato dove i viaggiatori erano andati, il fischio dell'evacuatore divenne un grido stridulo mentre veniva disfatto. Le sue braccia e la testa, prese nel nodo di forze che contrassegnava il punto di partenza, iniziarono a ruotare. La sua parte inferiore, sfuggita alle forze, venne scossa violentemente: le gambe si agitavano in cerca di una presa sul mosaico mentre lui cercava di ritrarsi. Troppo tardi. Judith vide testa e torso scorticarsi; vide la pelle del suo braccio mentre veniva strappata e risucchiata via.

Le forze che lo avevano intrappolato scomparvero velocemente. Ma la creatura non fu così fortunata. Con le braccia ancora attaccate al mondo su cui aveva forse potuto gettare uno sguardo mentre gli occhi gli uscivano dalle orbite, ripiombò a terra, mentre la massa blu-nera delle sue interiora si spargeva sul mosaico. Anche allora, sventrato e cieco, il suo corpo rifiutava di cessare di vivere. Si agitava in preda alle convulsioni come quello di un epilettico.

Dowd superò Jude, avvicinandosi al punto di passaggio con estrema attenzione, nel timore che il flusso potesse aver lasciato qualche strascico ma, non trovandone, estrasse un'arma dall'interno della giacca, e mirando a un punto vulnerabile nel groviglio che si dibatteva ai suoi piedi, sparò due volte. Le convulsioni dell'evacuatore rallentarono, poi si fermarono del tutto.

"Non dovresti essere qui," disse. "Niente di tutto questo è per i tuoi occhi."

"Perché no? So dove sono andati."

"Oh davvero?" chiese lui, sollevando un sopracciglio con espressione interrogativa. "E dove?"

"Nell'Imagica," rispose lei, ostentando un'assoluta familiarità con quell'idea, sebbene ancora la sbalordisse.

Dowd fece un sorrisino che lei non seppe interpretare con sicurezza: era di conferma o di sottile ironia? La guardò mentre Judith lo studiava, quasi crogiolandosi nel suo esame, e scambiando, forse, quello studio per reale ammirazione.

"E come fai a sapere dell'Imagica?" chiese ancora.

"Non lo sanno tutti?"

"Credo che tu ne sappia di più," replicò Dowd. "Anche se non ne sono completamente sicuro."

Judith sospettava di essere per lui una specie di enigma, ma fino a quando fosse rimasto tale, poteva sperare nella sua buona disposizione. "Credi che ce l'abbiano fatta?" chiese.

"Chi lo sa? Cercando di infilarsi, l'evacuatore può aver rovinato il loro passaggio. Potrebbero non aver raggiunto Yzordderrex."

"E allora dove saranno?"

"Nell'In Ovo, naturalmente. Da qualche parte tra qui e il Secondo Dominio."

"E come faranno a tornare?"

"Semplice," disse lui. "Non torneranno."

 

IV

 

Così attesero. O meglio, lei attese, osservando il sole scomparire dietro gli alberi macchiati da colonie di corvi neri, e le stelle della sera che portavano la luce in quel luogo. Dowd si tenne impegnato occupandosi dei corpi degli evacuatori, tirandoli fuori dalla Cappella, facendo una semplice pira di legna secca e bruciandoli su di essa. Non mostrò la minima preoccupazione per il fatto che lei assistesse a quello spettacolo, sperando forse che le servisse di lezione e avvertimento. Sicuramente pensava che lei fosse parte del mondo segreto che lui e gli evacuatori abitavano, non soggetta alle leggi e alla morale cui era legato il resto del mondo. Vedendo tutto ciò che aveva visto, e facendosi passare per un'esperta dell'Imagica, anche lei era diventata una cospiratrice. Ora non c'era modo di tornare indietro, alle compagnie che aveva frequentato e alla vita che aveva conosciuto; apparteneva al segreto tanto quanto il segreto apparteneva a lei.

Il fatto di per sé non sarebbe stato una grande perdita, se Godolphin fosse tornato. L'avrebbe aiutata a districarsi in mezzo ai misteri. Se però non fosse tornato, le conseguenze sarebbero state meno gradevoli. Essere costretta a sopportare la compagnia di Dowd semplicemente perché erano entrambi comparse marginali, sarebbe stato insopportabile. Sarebbe sicuramente sfiorita e morta. Ma poi che importanza avrebbe potuto avere, dato che Godolphin sarebbe comunque rimasto nella sua vita? Dall'estasi alla disperazione nel giro di un'ora. Era troppo sperare che il pendolo potesse tornare indietro prima che il giorno fosse terminato?

Il freddo accresceva la sua sofferenza, e non avendo altra fonte di calore a disposizione Judith si avvicinò alla pira, pronta a ritrarsi se l'odore o la vista fossero stati troppo disgustosi. Ma il fumo, che lei si aspettava puzzasse di carne arrostita, era quasi aromatico, e le forme nel fuoco irriconoscibili. Dowd le offrì una sigaretta, che lei accettò, accendendola con un rametto raccolto dal bordo del fuoco.

"Che cos'erano?" gli chiese, osservando i resti.

"Non hai mai sentito parlare di evacuatori? Sono la forma più bassa del basso. Io stesso li ho portati qui dall'In Ovo, e io non sono un Maestro, il che ti dà un'idea di quanto siano creduloni."

"Quando ha annusato il vento..."

"Sì, è stato piuttosto commovente, non è vero?" disse Dowd. "Ha sentito Yzordderrex."

"Forse era nato lì."

"È assai probabile. Ho sentito dire che sono figli del desiderio collettivo, ma non è vero. Sono figli della vendetta. Nati da madri che percorrevano la Via per proprio conto."

"Percorrere la Via è male?"

"Per il tuo sesso sì. E rigorosamente proibito."

"Allora quelle che violano la legge vengono ingravidate per vendetta?"

"Esattamente. Vedi, non puoi abortire gli evacuatori. Sono stupidi, ma combattono anche nel grembo. E uccidere qualcosa cui hai dato vita è assolutamente contrario ai codici femminili. Così, loro pagano perché gli evacuatori vengano gettati nell'In Ovo. Lì possono sopravvivere più a lungo di qualsiasi altra cosa. Si nutrono di tutto ciò che trovano, inclusi loro stessi. E alla fine, se sono fortunati, vengono portati da qualcuno in questo Dominio."

Quante cose da imparare, pensò Jude. Forse avrebbe dovuto coltivare l'amicizia di Dowd, per quanto fosse un individuo completamente privo di fascino. Sembrava gli piacesse ostentare il suo sapere, e più lei sapeva, più sarebbe stata preparata quando avrebbe finalmente attraversato la porta di Yzordderrex. Stava per chiedergli qualcosa di più sulla città quando un soffio di vento, proveniente dall'interno della Cappella, sollevò tra di loro una vampata di scintille.

"Stanno tornando," disse Judith, e andò in direzione dell'edificio.

"Stai attenta," l'avvertì Dowd. "Non puoi sapere se sono loro."

Il suo avvertimento fu vano. Jude corse verso la porta e la raggiunse mentre lo speziato vento d'estate moriva. L'interno della Cappella era buio, ma Jude fu in grado di vedere un'unica figura in piedi al centro del mosaico. Barcollò verso di essa, con il respiro affannoso. La luce del fuoco lo colpì quando fu a due metri da lei. Era Oscar Godolphin, con una mano sul naso sanguinante.

"Quel bastardo," disse.

"Dov'è?"

"Morto," rispose semplicemente lui. "Ho dovuto farlo, Judith, Era pazzo. Dio solo sa che cosa avrebbe potuto dire o fare..."

Tese un braccio verso di lei. "Vuoi aiutarmi? Mi ha quasi rotto il naso."

"Me ne occupo io," disse Dowd, possessivo. Passò oltre Judith, estraendo un fazzoletto dalla tasca. Venne allontanato con un gesto.

"Sopravvivrò," disse Oscar. "Andiamo a casa." Ora erano fuori dalla Cappella, e Oscar osservava il fuoco.

"Gli evacuatori," spiegò Dowd.

Oscar lanciò un'occhiata a Judith. "Ti ha fatto assistere al rogo?" chiese. "Quanto mi dispiace," Con occhi afflitti guardò nuovamente verso Dowd. "Questo non è il modo di trattare una signora," disse. "In futuro dovremo fare meglio."

"Che cosa intende dire?"

"Verrà a vivere con noi. Non è vero, Judith?"

Lei esitò per un attimo vergognosamente breve; poi disse; "Sì, verrò."

Soddisfatto, Oscar tornò a guardare la pira.

"Torna domani," disse poi a Dowd. "Disperdi le ceneri e sotterra le ossa. Ho un piccolo libro di preghiere che mi ha dato Peccable. Là dentro troveremo qualcosa di adatto."

Mentre lui parlava, Jude fissò l'oscurità all'interno della Cappella, cercando di immaginare il viaggio che era iniziato da lì, e la città, all'altra estremità, dalla quale era soffiato quel vento stuzzicante. Un giorno ci sarebbe andata. Per cercare un passaggio aveva perduto un marito, ma dal suo nuovo punto di vista sembrava una perdita priva di importanza. Dentro di lei c'era una nuova scala di sentimenti, nata nel momento in cui aveva visto Oscar Godolphin. Non sapeva ancora cosa sarebbe diventato per lei, ma forse sarebbe riuscita a persuaderlo a portarla con lui, un giorno, Presto.

 

Ansiosa com'era di figurarsi i misteri che si trovavano oltre il velo del Quinto, l'immaginazione di Jude, con tutto il suo fervore, non avrebbe potuto mai evocare la realtà di quel viaggio. Ispirata dalle poche tracce datele da Dowd, aveva immaginato l'In Ovo come una specie di terra desolata, nella quale gli evacuatori fluttuavano come uomini affogati nelle profondità del mare, e creature che il sole non avrebbe mai visto strisciavano verso di lei, rischiarando la strada con la loro stessa debole luminiscenza. Ma gli abitanti dell'In Ovo superavano in bizzarria qualsiasi fondo dell'oceano. Avevano forme e appetiti che nessun libro aveva ancora mai registrato. Erano posseduti da rabbie e frustrazioni vecchie di secoli.

E anche gli scenari che Jude aveva immaginato nell'attesa di passare dall'altra parte di quella prigione erano molto diversi. Se avesse viaggiato sullo Yzordderrex Express, rion sarebbe approdata a una città estiva, ma in una cantina umidiccia, adiacente al nascondiglio segreto di Peccable, il mercante di talismani e fossili. Per raggiungere l'aria aperta, avrebbe dovuto salire le scale e passare attraverso la casa. Una volta raggiunta la strada, almeno alcune delle sue aspettative sarebbero state soddisfatte. Lì l'aria era calda e piena di aromi e il cielo era chiaro. Ma non era un sole ad ardere nel cielo, era una Cometa che trascinava la sua chioma attraverso il Secondo Dominio. E se l'avesse fissata per un secondo, e poi avesse guardato la strada, Judith avrebbe visto il suo riflesso brillare in una pozza di sangue. Quello era il punto in cui era terminata la rissa tra Oscar e Charlie, e in cui il fratello sconfitto era stato abbandonato.

Non era rimasto lì a lungo. Di lì a poco s'era sparsa la voce che un uomo vestito con abiti stranieri giaceva abbandonato per strada, e, prima che l'ultima goccia di sangue avesse lasciato il suo corpo, tre individui, mai visti prima in quel Kesparate, erano venuti a prenderselo. Erano Affamatori, a giudicare dai loro tatuaggi, e se Jude fosse stata sulla soglia della casa di Peccable a osservare la scena, si sarebbe commossa nel vedere con quanta riverenza trattavano il loro fardello mentre lo portavano via. Come sorridevano a quel viso illividito e penzolante. Come piangeva uno di loro. Avrebbe anche notato - benché nella confusione della strada questo dettaglio avrebbe potuto sfuggirle - che, sebbene l'uomo sconfitto giacesse immobile nella culla che i suoi portatori formavano con le braccia, il petto non era completamente immobile.

Charles Estabrook, dato per morto e abbandonato nella sporcizia di Yzordderrex, lasciò quelle strade con sufficiente vitalità in corpo da essere considerato uno sconfitto, ma non un cadavere.

 

22

 

I

 

I giorni che seguirono la seconda partenza di Gentle e Pie da Beatrix parvero accorciarsi via via che i due si arrampicavano sullo Jokalaylau, confermando il sospetto che lì le notti fossero più lunghe di quelle in pianura. Era impossibile tuttavia esserne certi, poiché i due unici orologi a disposizione dei viaggiatori - la barba di Gentle e le viscere di Pie - divennero, durante la scalata, sempre meno affidabili: l'una perché Gentle smise di radersi, le altre perché il bisogno di nutrirsi dei viaggiatori, e dunque la loro necessità di defecare, diminuivano quanto più salivano. Anziché stuzzicare l'appetito, l'aria rarefatta divenne un banchetto di per sé, e i due viaggiavano per ore senza che i loro pensieri si rivòlgessero una sola volta alle necessità fisiche. Naturalmente, a impedir loro di dimenticarsi completamente dei propri corpi e del fine di quel viaggio c'era la compagnia che si facevano reciprocamente: ma ancora più affidabili, a questo proposito, erano gli animali sul cui dorso peloso cavalcavano. Quando i doeki avevano fame si fermavano senza tante storie e fino a che non erano sazi non potevano essere intimoriti o costretti a muoversi dal cespuglio o dal pascolo che avevano trovato. All'inizio, i cavalieri trovarono questo fatto irritante, e imprecavano quando, in tali occasioni, scendevano di sella sapendo che li attendeva un'ora di ozio, mentre gli animali pascolavano. Ma a mano a mano che i giorni passavano e l'aria diventava sempre più fine, anche Gentle e Pie cominciarono a dipendere dal ritmo delle fasi digestive dei doeki, e usarono queste soste forzate come momenti di pausa.

Divenne presto chiaro che i calcoli di Pie riguardo la lunghezza di quel viaggio erano stati a dir poco ottimistici. L'unica parte delle previsioni del mystif che quell'esperienza stava confermando era quella concernente le avversità. Ancora prima di raggiungere la linea dell'innevamento, cavalieri e cavalcature mostrarono segni di stanchezza e, mentre la terra da soffice diventava fredda e ghiaccia cancellando le tracce dì chi li aveva preceduti, il sentiero che stavano seguendo si fece, metro dopo metro, meno distinguibile. In vista delle distese di neve e dei ghiacciai perenni che li attendevano, i due viaggiatori lasciarono riposare i doeki per un giorno, e incoraggiarono le bestie a rimpinzarsi approfittando di quello che sarebbe stato l'ultimo pascolo disponibile prima di raggiungere l'altro versante della catena montuosa.

Gentle aveva chiamato la sua cavalcatura Chester, come il caro vecchio Klein, con il quale l'animale condivideva un certo fascino da ruminante. Pie rifiutò invece di dare un nome alla propria, dicendo che portava sfortuna mangiare una creatura che si conoscesse per nome, e che le circostanze li avrebbero potuti costringere a mangiare i doeki prima di raggiungere i confini del Terzo Dominio, A parte questa piccola disparità di vedute, quando ripartirono Gentle e Pie evitarono tra di loro ogni possibile attrito, eludendo consapevolmente qualsiasi accenno o discussione su ciò che era accaduto a Beatrix, o sulla sua importanza. Il freddo li aggredì ben presto, e i giubbotti che erano stati dati loro dati si rivelarono una difesa poco adeguata contro l'assalto del vento che portava con sé muri di neve farinosa, tanto fitta da nascondere a volte la strada. Quando ciò avveniva, Pie estraeva la bussola - il cui aspetto, agli occhi inesperti di Gentle, era più simile a quello di una mappa stellare - e con il suo aiuto ristabiliva la direzione. Solo una volta Gentle osò dichiarare che sperava che il mystif sapesse cosa stava facendo, ma si guadagnò un'occhiata così fulminante che da allora non toccò più l'argomento.

Nonostante il tempo peggiorasse ogni giorno facendo pensare malinconicamente Gentle a un gennaio inglese, la buona sorte non li abbandonò del tutto. Il quinto giorno oltre la linea della neve, in un momento in cui le raffiche di vento sembrarono acquietarsi, Gentle udì un suono di campanacci. I due si diressero in quella direzione e scoprirono un piccolo gruppo di montanari che badavano a un gregge di un centinaio o più di cugine delle capre terrestri, assai più pelose e viola come crochi. I pastori non parlavano inglese, e solo uno di loro, il cui nome era Kuthuss e che ostentava orgogliosamente una barba pelosa e viola quanto il pelo delle sue bestie, (il che portò Gentle a pensare a quale tipo di matrimoni di convenienza si fossero celebrati su quegli altopiani solitari), possedeva nel proprio vocabolario parole che Pie poté comprendere. Quel che disse spaventò Pie. I pecorai stavano portando via le loro greggi dagli Alti Passi prima del solito perché la neve aveva già coperto l'erba che in una stagione normale le bestie avrebbero brucato per altri venti giorni. Quella non era, e l'uomo ripeté il concetto diverse volte, una stagione normale. Non aveva mai visto la neve arrivare tanto presto, né cadere tanto copiosa, né aveva mai sentito venti tanto gelidi. Praticamente li avvertì di non tentare la strada davanti a loro: sarebbe stato un suicidio.

Pie e Gentle discussero di quell'avvertimento. Il viaggio si annunciava molto più lungo di quanto avessero previsto. Se fossero tornati giù sotto la linea dell'innevamento, per quanto fosse allettante la prospettiva di temperature più elevate e cibo fresco, avrebbero sprecato altri giorni. Giorni in cui si sarebbero potuti verificare orrori di tutti i generi; un centinaio di villaggi come Beatrix potevano venir distrutti, e innumerevoli vite potevano andare perdute.

"Ricordi cosa ho detto quando abbiamo lasciato Beatrix?" disse Gentle.

"No, francamente non me lo ricordo."

"Ho detto che non saremmo morti, e non ho intenzione di smentirmi: troveremo il modo di passare."

"Non sono sicuro che questa convinzione messianica mi piaccia," disse Pie. "Anche la gente animata dalle migliori intenzioni muore, Gentle. Anzi, ora che ci penso, spesso sono proprio i primi ad andarsene."

"Cosa stai dicendo? Che non verrai con me?"

"Ho detto che verrò dovunque andrai e lo farò. Ma le tue buone intenzioni non faranno alcuna impressione al freddo."

"Quanti soldi abbiamo?"

"Non molti."

"Abbastanza per comprare delle pelli di capra da questi uomini? E magari anche della carne?"

Seguì una discussione complessa, in tre lingue: Pie traduceva le parole di Gentle nella lingua che Kuthuss comprendeva e Kuthuss traduceva a sua volta per i suoi compagni pecorai. Venne rapidamente concluso un accordo; i pecorai parvero assai contenti della prospettiva del denaro contante. Pur di non rinunciare alle loro pellicce, però, due di loro si occuparono di macellare e spellare quattro animali. La carne venne cotta e divisa fra tutti. Era grassa e mezza cruda, ma né Gentle né Pie la rifiutarono, aiutandosi a mandarla giù con una bevanda preparata facendo bollire la neve insieme a foglie secche e un goccio di liquore che a Pie parve Kuthuss avesse chiamato piscio di capra. Ciononostante, i due viaggiatori lo assaggiarono. Era potente, e dopo un sorso - buttato giù come fosse vodka - Gentle osservò che, se quello faceva di lui un bevitore di piscio, accettava la definizione.

Il giorno dopo, muniti di pelli, carne, e di diverse brocche della bevanda dei pecorai, più un tegame e due bicchieri, si salutarono con certi versi malarticolati, e si separarono dalla compagnia. Poco dopo il tempo peggiorò ancora, e si ritrovarono una volta di più sperduti in un deserto bianco. Ma il loro morale si era risollevato all'incontro, e per i successivi due giorni e mezzo fecero costanti progressi, finché, mentre il crepuscolo del terzo giorno si avvicinava, l'animale che Gentle stava cavalcando iniziò a dare segni di stanchezza: scrollava la testa e i suoi zoccoli non sembravano più in grado di affondare nella neve davanti a loro.

"Credo sia meglio farlo riposare," disse Gentle.

Trovarono una nicchia tra massi tondeggianti tanto grandi da sembrare quasi colline, e accesero un fuoco per scaldare un po' del liquore dei pecorai. Era stato questo, ancor più della carne, a sostentarli nei momenti più duri del viaggio, ma per quanto cercassero di farne un uso parsimonioso, avevano quasi esaurito le loro già modeste scorte. Mentre bevevano, parlarono di ciò che li attendeva. Le previsioni di Kuthuss si stavano dimostrando esatte. Il tempo era in costante peggioramento e le possibilità di incontrare un altro essere vivente qualora si fossero trovati in difficoltà erano praticamente mille. Pie ricordò a Gentle la sua convinzione che non sarebbero morti: alla faccia dei lampi, degli uragani, dell'eco di Hapexamendios stesso disceso dalla montagna, loro non sarebbero morti.

"E anch'io dicevo sul serio," replicò Gentle. "Ma mi concederai comunque di disperarmi, no?" Avvicinò le mani al fuoco. "C'è ancora piscio nella brocca?" chiese.

"Ho paura di no."

"Ti assicuro, quando ritorniamo passando di qui..." Pie fece una smorfia "... lo faremo, lo faremo. Quando torniamo di qui dobbiamo farci dare la ricetta. Così potremo prepararlo anche sulla Terra..."

Avevano lasciato i doeki un poco distanti, e udirono ora il suono basso di un muggito.

"Chester!" disse Gentle avvicinandosi alla bestia.

Chester giaceva sul fianco, respirando a fatica. Sanguinava dalla bocca e dal naso, e il sangue scioglieva la neve sui cui cadeva.

"Oh merda, Chester" implorò Gentle, "non morire."

Aveva appena posato quella che sperava fosse una mano confortante sul fianco del doeki che questo voltò il suo lucido occhio bruno verso di lui, emise un ultimo gemito e smise di respirare.

"Abbiamo appena perso il cinquanta per cento della nostra capacità di trasporto," disse a Pie.

"Guardala da un altro punto di vista. Abbiamo appena guadagnato una settimana di carne."

Gentle osservò l'animale morto, pensando che avrebbe dovuto seguire il consiglio di Pie e non dare un nome all'animale. Ora, se avesse succhiato le sue ossa, avrebbe pensato a Klein.

"Lo farai tu o devo farlo io?" chiese. "Credo che dovrei farlo io. Io gli ho dato un nome, dovrei essere io a scuoiarlo."

Il mystif non si oppose, suggerì solamente di allontanare l'altro animale dalla scena, casomai anch'esso perdesse la voglia di vivere, vedendo sventrare il compagno. Gentle si dichiarò d'accordo, e guardò Pie che allontanava l'altra bestia. Brandendo il coltello che gli era stato dato quando avevano lasciato Beatrix, iniziò il lavoro di macellazione. Scoprì rapidamente che né lui né il coltello erano all'altezza del compito. La pelle del doeki era spessa, il suo grasso gommoso, la carne dura. Dopo un'ora di tagliuzzamenti e strappi era riuscito a staccare la pelle solo dalla parte alta della gamba posteriore e da una piccola porzione del suo fianco. Gentle era completamente coperto dal sangue appiccicoso dell'animale, e sotto le pelli che indossava sudava copiosamente.

"Ti do il cambio?" suggerì Pie.

"No," tagliò corto Gentle, "posso farlo io," e continuò a lavorare nella stessa maniera improduttiva, con la lama ormai smussata e i muscoli affaticati. Attese un intervallo di tempo decente, poi si alzò e tornò al fuoco dove Pie era seduto, fissando le fiamme. Irritato per la sconfitta, gettò il coltello nella neve che si stava sciogliendo accanto al fuoco.

"Ci rinuncio," disse. "È tutto tuo."

Piuttosto riluttante, Pie raccolse il coltello e lo affilò sulla roccia, poi si mise al lavoro. Gentle non guardò. Provava repulsione per il sangue che lo aveva schizzato tutto, e decise di sfidare il freddo per pulirsi. Trovò un punto poco lontano dal fuoco in cui il terreno era sgombro, si tolse giubbotto e camicia e si inginocchiò per lavarsi con la neve. La pelle gli si accapponò per il freddo, ma la prova che infliggeva alla sua volontà e alla sua carne soddisfaceva un certo istinto di automortificazione e, quando ebbe pulito mani e viso, si massaggiò con la neve pungente torace e stomaco, anche se in quei punti i fluidi del doeki non lo avevano macchiato. Nelle ultime ore il vento era calato, e il cielo visibile tra le rocce era più color dell'oro che verde. Gentle venne sopraffatto dalla necessità di godere di quella luce libero da intoppi e, senza rimettersi il giubbotto, si arrampicò sulle rocce. Le sue mani erano prive di sensibilità, e la salita più difficile di quanto si aspettasse, ma quando raggiunse la cima, vedendo lo scenario sotto e sopra di sé, capì che ne era valsa la pena. Non c'era da stupirsi che Hapexamendios fosse passato da lì percorrendo la Sua strada verso il Suo luogo di riposo. Anche gli Dei potevano essere ispirati da tale magnificenza. I picchi dello Jokalaylau si succedevano in sequenze apparentemente infinite, con i pendii innevati leggermente dorati dagli stessi cieli che cercavano di raggiungere. Il silenzio non avrebbe potuto essere più completo.

Gentle scoprì che la sua posizione dominante poteva avere uno scopo pratico oltre che estetico. Il Passo Alto era chiaramente visibile. A una certa distanza sulla sua destra si scorgeva uno spettacolo così sconcertante che Gentle si sentì di distogliere il mystif dal suo lavoro: un ghiacciaio dalla superficie luccicante si trovava a un paio di chilometri dalla roccia su cui stava lui. Ma non era lo spettacolo di una tale immensità ghiacciata ad attirare l'attenzione di Gentle, bensì la presenza, all'interno del ghiaccio, di alcune forme più scure.

"Vuoi andare a scoprire cosa sono?" chiese il mystif lavandosi le mani insanguinate nella neve.

"Credo che dovremmo," replicò Gentle. "Se stiamo ripercorrendo i passi dell'Imperscrutato, dobbiamo fare in modo di vedere ciò che ha visto Lui."

"O ciò che Egli ha causato," disse Pie.

Scesero, e Gentle indossò nuovamente la camicia e il giaccone. Gli indumenti erano asciutti, dato che li aveva lasciati accanto al fuoco, e fu contento di quel conforto, ma puzzavano del suo sudore e degli animali dalle cui schiene erano stati strappati, e Gentle avrebbe quasi preferito camminare nudo, piuttosto di dover portare sulle sue spalle un'altra pelle.

"Hai finito di scuoiarlo?" chiese a Pie mentre si incamminavano a piedi per risparmiare le energie del loro unico mezzo di trasporto.

"Ho fatto ciò che potevo," replicò Pie. "Ma è un lavoraccio. Non sono un macellaio."

"Sei un cuoco?" chiese Gentle.

"Non esattamente. Perché me lo chiedi?"

"Ho pensato molto al cibo, ecco perché. Sai, dopo questo viaggio potrei non mangiare mai più carne. Il grasso! La cartilagine! Pensarci mi dà il voltastomaco."

"Ti piacciono cose dolci."

"Ah, te ne sei accorto. Ucciderei per avere qui un piatto di profiterole affogati nella crema alla cioccolata." Rise. "Ma senti un po' questa! Le glorie di Jokalaylau si innalzano dinnanzi a noi e io sono ossessionato dai profiterole." Poi, improvvisamente serio: "Esiste il cioccolato a Yzordderrex?"

"Ormai, credo di sì. Ma la mia gente mangia in modo semplice, perciò non ho mai avuto la mania dei dolci. Il pesce, invece..."

"Pesce?" disse Gentle, "Non mi attira affatto."

"Ne mangerai a Yzordderrex. C'è un ristorante vicino al porto..." Il discorso del mystif si mutò in sorriso. "Parlo come te. Dobbiamo entrambi essere stanchi della carne di doeki."

"Continua," disse Gentle. "Voglio vederti sbavare."

"Al porto ci sono dei ristoranti dove il pesce è così fresco che ancora si muove mentre lo portano in cucina."

"Me lo stai raccomandando?"

"Non c'è niente al mondo buono quanto il pesce fresco," disse Pie. "Se la pesca è stata buona, è possibile scegliere tra quaranta, forse cinquanta piatti. Dai piccoli jepas agli squeffah grandi quanto me e più."

"C'è niente che potrei riconoscere?"

"Alcune specie. Ma perché fare tutto questo viaggio per un trancio di merluzzo, se puoi avere lo squeffah? O meglio, c'è un piatto che devo farti assaggiare. È un pesce che si chiama ugichee, che è piccolo quasi quanto un jepas: vive nello stomaco di un altro pesce."

"Suona piuttosto suicida."

"Aspetta, c'è di più. Il secondo pesce viene spesso mangiato intero da una specie di sgombro che si chiama coliacic. Sono orribili, ma la carne si scioglie come burro. Perciò, se sei fortunato, te li preparano tutti e tre insieme sulla griglia, proprio come sono stati catturati..."

"Uno dentro l'altro?"

"Testa, coda e tutto quanto."

"Ma è disgustoso."

"E se sei molto fortunato..."

"Pie..."

"... l'ugichee è una femmina, e quando tagli tutti i tre strati di pesce, trovi..."

"...la sua pancia piena di uova."

"Indovinato. Non ti sembra allettante?"

"Preferisco la mia mousse al cioccolato e il gelato."

"Com'è che non sei grasso?"

"Vanessa diceva che avevo la gola di un bambino, la libido di un adolescente, e il... be', il resto puoi immaginarlo. Espello tutto sudando quando faccio l'amore. O almeno quando lo facevo."

Adesso erano vicini al bordo del ghiacciaio e i loro discorsi su pesce e cioccolato si spensero, sostituiti da un silenzio grave, mentre l'identità delle forme prigioniere del ghiaccio diventava evidente. Erano corpi umani, una dozzina o più. Il ghiaccio si chiudeva intorno a loro come intorno a una collezione di reliquie: frammenti di pietra blu; immense ciotole di metallo battuto; resti di vestiti... il sangue su di essi come fresco. Gentle si arrampicò e slittò lungo la cima del ghiacciaio, finché i corpi furono esattamente sotto di lui. Alcuni erano sepolti troppo profondamente per essere esaminati, ma quelli più vicini alla superficie - visi rivolti verso l'alto, membra irrigidite in atteggiamenti disperati - erano fin troppo visibili. Erano tutte donne, la più giovane poco più di una bambina, la meno giovane una vecchiaccia nuda con molti seni, spirata con gli occhi ancora aperti, lo sguardo preservato per il millennio. C'era stato un massacro, lì o più in alto sulla montagna, e le prove erano state gettate in quel fiume quando ancora scorreva. Poi, evidentemente, il fiume era gelato intorno alle vittime.

"Chi sono?" chiese Gentle. "Hai qualche idea?" Nonostante fossero morti, usare l'imperfetto non sembrava adatto per corpi conservati tanto perfettamente.

"Quando l'Imperscrutabile è passato attraverso i Domini, ha rovesciato tutti i culti che ha giudicato indegni. La maggior parte di essi erano consacrati alle Dee. I loro oracoli e i loro devoti erano per lo più donne."

"Allora credi che sia stato Hapexamendios a fare questo?"

"Se non Lui, allora i Suoi agenti, i Suoi Virtuosi. Anche se, ripensandoci, si dice che sia passato per di qui da solo, per cui questa probabilmente è proprio opera Sua."

"Allora, chiunque sia," disse Gentle, guardando la bambina nel ghiaccio, "è un assassino. Non migliore di me o te."

"Non lo direi a voce troppo alta," disse Pie.

"Perché no? Non è qui."

"Se questa è opera Sua, allora potrebbe aver lasciato delle entità a vegliare su di essa."

Gentle si guardò intorno. L'aria non avrebbe potuto essere più limpida. Sulle cime o nei campi innevati sottostanti non c'era segno di vita. "Se sono qui, non li vedo," disse.

"I peggiori sono quelli che non puoi vedere," replicò Pie. "Torniamo al fuoco?"

 

II

 

Ciò che avevano visto li rese più fiacchi e il ritorno fu più lento dell'andata. Quando riuscirono a raggiungere la salvezza della loro nicchia nelle rocce, accolti dai grugniti di benvenuto del doeki sopravvissuto, il cielo stava perdendo il suo splendore dorato e l'oscurità si stava avvicinando. Discussero circa la possibilità di proseguire al buio e decisero di fermarsi. Anche se in quel momento l'aria era calma, grazie all'esperienza che ormai avevano accumulato sapevano che a quest'altezza gli sviluppi metereologici erano imprevedibili. Se avessero tentato di spostarsi di notte e dalle cime delle montagne fosse giunta una tempesta, sarebbero stati doppiamente accecati e avrebbero corso il rischio di perdere la strada. Con il Passo Alto così vicino, e una volta oltrepassato lo spartiacque, il viaggio sarebbe diventato di sicuro più agevole: non valeva dunque la pena di correre il rischio di perdersi.

Avendo esaurito la scorta di legna raccolta prima di arrivare alla neve, dovettero alimentare il fuoco con la sella e i finimenti del doeki morto. Ottennero una fiamma fumosa, incostante e dall'odore acre, ma meglio di niente. Cucinarono un po' di carne fresca. Gentle fece notare mentre masticava che aveva meno rimorsi di quanto credeva nel mangiare qualcosa cui aveva dato un nome, e preparò una piccola dose del liquore-piscio dei pecorai. Mentre bevevano, Gentle riportò la conversazione sulle donne nel ghiaccio.

"Perché un Dio tanto potente come Hapexamendios dovrebbe massacrare delle donne indifese?"

"Chi ha detto che erano indifese?" replicò Pie. "Probabilmente erano molto potenti. I loro oracoli devono averle avvertite di cosa stava per accadere, perciò i loro eserciti erano pronti..."

"Eserciti di donne?"

"Certamente. Decine di migliaia di guerriere. Ci sono luoghi a nord della via di Lenten in cui la terra si muoveva ogni cinquant'anni circa, mettendo allo scoperto qualche loro tomba di guerra."

"Sono stati tutti massacrati? Gli eserciti, gli oracoli..."

"O spinti a nascondersi tanto profondamente che hanno dimenticato chi erano dopo poche generazioni. Non fare quella faccia sorpresa. Succede."

"Quante Dee può sconfiggere un singolo Dio? Dieci, venti..."

"Innumerevoli."

"Come?"

"Lui era Uno. Loro erano molte, e diverse."

"Solitudine è forza..."

"Almeno a breve termine. Chi te lo ha detto?"

"Sto cercando di ricordarlo. Qualcuno che non mi piaceva molto. Forse Klein."

"Chiunque l'abbia detto, è vero. Hapexamendios è venuto nei Domini con un'idea seducente: dovunque andassi, qualsiasi disgrazia ti accadesse, bastava soltanto pronunciare un nome, una preghiera, o accostarti a un altare, ed eri sotto la Sua protezione. E, dopo averne stabilito l'ordine, ha scelto una specie per mantenerlo. La Tua."

"Quelle donne mi sono sembrate umane"

"Anch'io lo sembro," gli ricordò Pie. "Ma non lo sono."

"No... tu sei abbastanza diverso, non è vero?"

"Un tempo lo ero..."

"E allora questo fa sì che tu stia dalla parte delle Dee, o no?" sussurrò Gentle.

Il mystif si portò un dito davanti alle labbra.

Per tutta risposta Gentle formò con le labbra una parola: "Eretico."

Adesso era proprio buio, ed entrambi si misero a fissare il fuoco. Diminuiva costantemente, man mano che la sella di Chester si consumava.

"Forse dovremmo bruciare della pelliccia," suggerì Gentle.

"No," disse Pie. "Lascia che diminuisca. Ma continua a guardare."

"Cosa?"

"Qualsiasi cosa."

"Ci sei solo tu da guardare."

"Allora guarda me."

Gentle obbedì. Le privazioni di tutti gli ultimi giorni parevano non aver colpito il mystif. Non aveva peli sul viso che guastassero la simmetria dei suoi tratti, e la dieta spartana non gli aveva affilato le guance o scavato gli occhi. Studiare il suo viso era come tornare al dipinto preferito in un museo. Un elemento di calma e bellezza. Ma, a differenza di un dipinto, il viso di fronte a lui, che attualmente pareva tanto solido, era capace di infiniti cambiamenti. Erano trascorsi mesi dalla notte in cui Gentle aveva assistito a quel fenomeno per la prima volta. Ma ora, mentre il fuoco si estingueva e le ombre intorno a loro crescevano, si rese conto che lo stesso dolce miracolo era imminente. Il guizzo della fiamma morente rendeva acquosa la simmetria dei tratti del mystif; la carne davanti a Gentle pareva perdere la sua stabilità mentre lui la fissava e attizzava il fuoco.

"Voglio guardare..." mormorò.

"Allora guarda."

"Ma il fuoco si sta spegnendo..."

"Non abbiamo bisogno della luce per vederci l'un l'altro," bisbigliò il mystif. "Continua a guardare."

Gentle si concentrò, studiando il viso di fronte a sé. Gli dolevano gli occhi, mentre cercava di continuare a guardare, ma l'oscurità era ormai troppo fitta.

"Smetti di guardare..." disse Pie, e la sua voce sembrava provenire dalla brace morente. "Smetti di guardare, e vedi."

Gentle cercò di capire il senso di questa affermazione, che non era molto più penetrabile dell'oscurità di fronte a lui. Provò una sensazione di morte, e fu assalito da un panico che gli ricordò la paura che aveva provato a volte nel mezzo della notte, svegliandosi nel suo letto e nel suo corpo, e non riconoscendo nessuno dei due: quando le sue ossa erano una gabbia, il suo sangue una pappa; la sua dissoluzione l'unica certezza. In quei momenti accendeva tutte le luci, cercando di trarne il conforto. Ma lì non c'erano luci. Solo corpi che diventavano sempre più freddi mentre il fuoco si spegneva.

"Aiutami," disse.

Il mystif non parlò.

"Sei lì, Pie? Ho paura. Toccami, ti prego. Pie?"

Il mystif non si mosse. Gentle iniziò ad allungare le mani nell'oscurità, e in quel momento ricordò il momento in cui aveva visto Taylor sdraiato su un cuscino dal quale entrambi sapevano che non si sarebbe mai più rialzato, che gli chiedeva di tenergli la mano. Con quel ricordo, il panico divenne tristezza: per Taylor, per Clem, per ogni anima separata dai suoi cari da sensi nati fallaci; e anche per se stesso. Voleva ciò che voleva il bambino: sapere che c'era un'altra presenza e provarselo toccandola. Ma sapeva che quella non era una vera soluzione. Avrebbe potuto trovare il mystif al buio, ma non poteva rimanere aggrappato alla sua carne per sempre, come non poteva trattenere i sensi che aveva perso. I suoi nervi erano a pezzi e le dita si staccavano dalle dita. Sapendo che anche questo piccolo sollievo, come qualunque altro, era senza speranza, ritrasse la mano, e disse invece: "Ti amo."

O forse lo pensò soltanto? Forse era pensiero, perché fu l'idea più che le sillabe a formarsi davanti a lui, con un'iridescenza che ricordava di aver visto nel corso della precedente trasformazione di Pie, il bagliore in un'oscurità che non era, comprese vagamente, l'oscurità di una notte senza stelle, ma l'oscurità della sua mente; e quella vista non era frutto di un occhio fisico, ma della sua comunione con una creatura che amava, e che lo amava.

Lasciò che i suoi sentimenti passassero a Pie, se c'era effettivamente un passaggio, cosa di cui comunque dubitava. Lo spazio, come il tempo, appartenevano all'altra storia, alla tragedia della separazione che si erano lasciati alle spalle. Privato dei suoi sensi e delle loro necessità, quasi non fosse ancora nato, conosceva il conforto del mystif come lui conosceva il suo, e quella dissoluzione nel terrore della quale si era svegliato così tante volte, si rivelava per l'inizio della beatitudine.

Una folata di vento, soffiando tra le rocce, colpì di lato i tizzoni, trasformando il loro bagliore in una fiamma improvvisa. Il fuoco illuminò il viso di fronte a Gentle, e quella vista lo fece ritornare alla sua condizione prenatale. Quel ritorno non gli costò grande fatica. Il luogo che avevano trovato insieme era fuori dal tempo, e non poteva deteriorarsi; e il viso di fronte a lui, nonostante tutta la sua fragilità (o forse a causa di essa) era bellissimo da guardare. Pie gli sorrise, ma non aprì bocca.

"Dovremmo dormire," disse Gentle. "Abbiamo molta strada da fare domani."

Arrivò un'altra folata che portò fiocchi di neve contro il viso di Gentle. L'uomo sollevò il cappuccio del giaccone sopra la testa, e si alzò per controllare che il doeki stesse bene. L'animale si era scavato un letto poco profondo nella neve, e stava dormendo. Quando Gentle tornò al fuoco, che nel frattempo aveva trovato qualche pezzetto di combustibile e lo stava divorando luminosamente, anche il mystif si era addormentato, con il cappuccio sollevato che gli incorniciava la testa. Fissando la metà visibile del viso di Pie, nacque in Gentle un pensiero semplice: sebbene il vento stesse soffiando sulla roccia, pronto a seppellirli, sebbene nella valle alle loro spalle ci fosse la morte, e davanti a loro una città di atrocità, era felice. Si sdraiò sul duro terreno accanto al mystif. Il suo ultimo pensiero prima che lo raggiungesse il sonno fu per Taylor, sdraiato su un cuscino che si trasformava in un campo innevato mentre l'amico esalava l'ultimo respiro, con il viso sempre più traslucido fino alla definitiva scomparsa. Cosicché, quando Gentle scivolò nel sonno, non entrò nell'oscurità, ma nel candore di quel letto di morte trasformato in neve intatta.

 

23

 

I

 

Gentle sognò che il vento diventava più forte, e faceva cadere dalle cime neve fresca e intatta. Ciononostante egli lasciava il relativo conforto del giaciglio accanto alla cenere, si toglieva giaccone e camicia, stivali e calze, pantaloni e mutande e, nudo, si incamminava lungo lo stretto corridoio di roccia, accanto al doeki addormentato, e andava ad affrontare le raffiche di vento. Anche in sogno il soffio freddo minacciava di gelarlo fino al midollo, ma lui aveva gli occhi fissi al ghiacciaio e doveva andare in tutta umiltà, nudi i lombi e il dorso, a mostrare il dovuto rispetto alle anime che lì avevano sofferto. Anime che avevano sopportato secoli di dolore, e nei cui confronti era stato commesso un crimine non ancora vendicato. Paragonata alla loro, la sua sofferenza era cosa di scarsa importanza.

Nell'ampio cielo c'era luce sufficiente per vedere il cammino, ma le distese sembravano interminabili e i colpi di vento si facevano sempre più insidiosi, gettandolo più d'una volta nella neve. Aveva i crampi e il respiro, che usciva dalle sue labbra ormai insensibili e si condensava in piccole nuvole dure, si faceva affannoso. Voleva piangere per il dolore, ma le lacrime si cristallizzavano all'angolo dell'occhio e non cadevano.

Per due volte si fermò, perché sentiva che dietro la tempesta c'era qualcosa di più che la sola neve. Ricordava il discorso di Pie sugli agenti lasciati in quei tenitori sconfinati a guardia del luogo del delitto e, sebbene stesse solo sognando e se ne rendesse conto, ebbe paura. Se quelle entità avevano davvero l'incarico di allontanare i testimoni dal ghiacciaio, non si sarebbero limitate ad allontanare soltanto chi vegliava ma anche i dormienti; e coloro che venivano come veniva lui, per omaggiare le vittime, sarebbero incorsi nella loro speciale collera. Studiò l'aria colma di particole, cercando un qualche loro segno, e a un tratto credette di aver visto una forma in alto che sarebbe stata invisibile se non per il fatto che aveva spostato la neve: un corpo da anguilla con una piccola testa a palla. Ma scomparve troppo velocemente perché Gentle fosse sicuro di averla realmente veduta. Il ghiacciaio era ormai in vista, e la volontà di Gentle mise in movimento le sue membra, fino a che non ne raggiunse le pendici. Si portò le mani al viso e si tolse la neve dalle guance e dalla fronte, poi avanzò sul ghiaccio. Le donne guardarono verso di lui come avevano fatto quando era stato lì con Pie'oh'pah, ma ora, attraverso il nevischio sottile che soffiava sul ghiaccio, lo videro nudo, con il membro ritratto, il corpo tremante; sul suo viso e sulle labbra una domanda per la quale aveva una mezza risposta: perché, se quella era opera di Hapexamendios, l'Imperscrutato, perché, con tutti i Suoi poteri di distruzione, Egli non aveva cancellato ogni traccia delle Sue vittime? Forse perché erano donne o, più precisamente, donne potenti? Le aveva portate alla rovina come meglio poteva - rovesciando i loro altari, e abbattendo i loro templi - ma alla fine era stato incapace di eliminarle? E, se era così, quel ghiaccio era una tomba, o soltanto una prigione?

Cadde in ginocchio e mise le mani sul ghiaccio. Questa volta udì distintamente un suono nel vento: un ululato profondo che proveniva da qualche parte sopra di lui. Gli invisibili si erano divertiti fin troppo a lungo osservando la sua presenza sognante. Avevano capito il suo scopo, e ora si radunavano, accingendosi a discendere. Gentle si soffiò sulla mano e strinse il pugno prima che il fiato potesse disperdersi, poi sollevò il braccio e colpì la superficie ghiacciata aprendo le dita.

Il soffio partì con fragore di tuono. Prima che le vibrazioni cessassero, Gentle emise un secondo pneuma e lo diresse contro il ghiaccio; poi un terzo e un quarto in rapida successione, colpendo quella ferrea superficie con tanta forza che, se il soffio non avesse attutito il colpo, egli si sarebbe rotto tutte le ossa, dal polso alla punta delle dita. Ma i suoi sforzi ebbero effetto. Dal punto d'impatto cominciarono a irradiarsi sottilissime incrinature.

Incoraggiato, Gentle iniziò una seconda tornata di colpi, ma ne aveva dati solo tre quando sentì qualcosa che gli afferrava i capelli, tirandogli la testa indietro. Una seconda morsa gli ghermì contemporaneamente il braccio sollevato. Ebbe il tempo di sentire il ghiaccio rompersi tra le sue gambe, poi venne sollevato dal ghiacciaio per il polso e i capelli. Lottò contro quella morsa, sapendo che se i suoi assalitori lo avessero portato troppo in alto la morte sarebbe stata assicurata: lo avrebbero fatto a pezzi tra le nuvole o, più semplicemente, lo avrebbero lasciato cadere giù, La presa sulla sua testa era la meno salda delle due e i movimenti di Gentle furono sufficienti a sfuggirle, anche se il sangue gli correva già lungo le sopracciglia. Libero, guardò verso le entità che lo avevano attaccato, Erano due, lunghe un paio di metri; dalle spine dorsali dei loro corpi scarni si dipartivano innumerevoli costole, dodici membra prive di osso, e delle teste rudimentali. Solo il loro movimento aveva qualche bellezza. Era un sinuoso annodarsi e snodarsi. Gentle allungò le mani e afferrò la più vicina delle due teste. Anche se non riusciva a distinguerne le fattezze, sembrava gracile, e la mano di Gentle era ancora abbastanza forte degli pneumi lanciati fino a quel momento da poterle fare del male. Affondò le dita nella carne della cosa, ed essa iniziò immediatamente a contorcersi, avvolgendosi in spire attorno al compagno per ottenerne aiuto, mentre le sue membra si dibattevano violentemente. Gentle torse il proprio corpo a sinistra e a destra, con un movimento abbastanza violento da riuscire a divincolarsi. Poi cadde; da un'altezza di appena due metri, ma cadde duramente sul ghiaccio scheggiato. Quando arrivò il dolore, il fiato gli venne meno. Ebbe il tempo di vedere gli agenti scendere su di lui, ma non quello di fuggire. Sveglio o addormentato, quella era la sua fine, lo sapeva: la morte che veniva da quelle membra aveva effetto in entrambe le condizioni.

Prima che i due esseri potessero trovare la sua carne, accecarlo e abbatterlo, Gentle sentì tremare il ghiacciaio frantumato sotto di sé, lo sentì sollevarsi con un boato, e si ritrovò con la schiena nella neve. Un turbine di frammenti di ghiaccio piovve su di lui ma, attraverso quella grandine, Gentle poté vedere che le donne stavano emergendo dalle loro tombe vestite di ghiaccio. Si issò in piedi mentre le scosse aumentavano e il frastuono echeggiava per le montagne. Poi si voltò e cominciò a correre.

Il sommovimento fu discreto, e stese rapidamente il suo velo sulla resurrezione, cosicché Gentle fuggì senza sapere quale fosse l'esito dell'evento che aveva scatenato. Certamente gli agenti di Hapexamendios non lo seguirono, o se lo fecero non riuscirono a trovarlo. La loro assenza lo confortò ben poco. Le sue avventure gli avevano rotto le ossa e la distanza che aveva da coprire per ritornare al campo era notevole. La sua corsa si trasformò ben presto in un inciampare e un barcollare, con il sangue che disegnava la traccia del suo percorso. Era ora di finirla con quel sogno tribolato, pensò Gentle, e di aprire gli occhi; di girarsi e mettere il braccio intorno a Pie'oh'pah; di baciare la guancia del mystif e di condividere con lui questa visione. Ma i suoi pensieri erano troppo confusi per aggrapparsi allo stato di veglia il tempo necessario ad alzarsi, ed egli non osava sdraiarsi nella neve nel timore che la morte in sogno si recasse da lui prima che il mattino lo risvegliasse. Tutto quello che poteva fare era continuare a spingersi avanti, sentendosi a ogni passo più debole, rimuovendo dalla sua mente il pensiero di aver perso la strada, di non aver più il campo davanti a sé e di correre invece in una direzione completamente diversa.

Quando udì il grido si stava guardando i piedi, e il suo primo istinto fu di guardare verso la neve sopra di sé, aspettandosi di scorgere una delle creature dell'Imperscrutato. Ma, prima che i suoi occhi raggiungessero lo zenith, incontrarono una figura che si avvicinava da sinistra. Gentle si fermò a studiarla. Era pelosa e incappucciata, ma le sue braccia erano protese in un gesto di invito. Gentle non sprecò la poca energia che gli rimaneva per invocare il nome di Pie. Cambiò semplicemente direzione e si incamminò verso il mystif che a sua volta veniva verso di lui. Pie era più veloce di lui, e mentre si avvicinava si tolse il giaccone e lo tenne aperto, cosicché Gentle cadde nel suo caldo abbraccio. Non poté sentirlo; poteva sentire ben poco, tranne il sollievo. Sostenuto dal mystif, Gentle abbandonò tutti i pensieri coscienti, e il resto del percorso divenne una visione sfocata di neve e neve, inframmezzata talora dalla voce di Pie che, accanto a lui, gli diceva che di lì a poco sarebbe tutto finito.

 

"Sono sveglio?" Gentle aprì gli occhi e si mise a sedere, facendo presa sul giaccone di Pie. "Sono sveglio?"

"Sì."

"Grazie a Dio! Grazie a Dio! Pensavo che sarei morto congelato."

Lasciò cadere la testa all'indietro. Il fuoco stava bruciando, alimentato dalla pelliccia, e Gentle poteva sentirne il calore sul viso e sul corpo. Ci vollero alcuni secondi perché si rendesse conto di cosa ciò significasse. Poi si rimise a sedere, e si accorse di essere nudo; nudo e coperto di tagli.

"Non sono sveglio," disse. "Merda! Non sono sveglio."

Pie tolse la caraffa con la bevanda dei pastori dal fuoco e ne versò una tazza.

"Non hai sognato," disse il mystif. Diede la tazza a Gentle. "Sei andato al ghiacciaio, e ci è mancato poco che non tornassi più."

Gentle prese la tazza con le dita escoriate. "Devo essere stato fuori di me," disse. "Mi ricordo di aver pensato: sto sognando, poi mi sono tolto il giaccone e i vestiti... perché diavolo l'ho fatto?" Ricordava ancora di aver lottato contro la neve, e di aver raggiunto il ghiacciaio. Ricordava il dolore, e il ghiaccio che si rompeva, ma il resto era così remoto che non riusciva a ricordarlo. Pie vide il suo sguardo perplesso.

"Non cercare di ricordare, ora," disse il mystif. "Tutto tornerà quando sarà il momento. Se ti sforzi troppo, ti spezzerai il cuore. Dovresti dormire un poco."

"Non ho voglia di dormire," gli rispose Gentle. "È un po' troppo simile al morire."

"Io sarò qui," gli disse Pie. "Il tuo corpo ha bisogno di riposare. Lasciagli fare ciò di cui ha bisogno."

Il mystif aveva scaldato la camicia di Gentle davanti al fuoco, e ora lo aiutò a indossarla. Le sue articolazioni si stavano già irrigidendo. Senza l'aiuto di Pie, Gentle indossò i pantaloni sulle membra che erano una massa di lividi e di abrasioni.

"Qualunque cosa io abbia fatto là fuori, certamente mi sono conciato male," commentò.

"Guarirai velocemente," disse Pie. Era vero, anche se Gentle non ricordava di aver trasmesso al mystif quella informazione. "Sdraiati. Ti sveglierò quando farà chiaro."

Gentle appoggiò la testa sul piccolo mucchio di pelli che Pie aveva adattato a cuscino, e lasciò che il mystif lo coprisse con il suo giaccone.

"Sogna di dormire," disse Pie, sfiorando con la mano il viso di Gentle. "E svegliati intero."

 

II

 

Quando Pie lo svegliò, a Gentle parve che fossero trascorsi pochi minuti. Il cielo visibile tra le rocce era ancora scuro, ma si trattava dell'ombra di una nuvola carica di neve più che il nero-violaceo di una notte sullo Jokalaylau. Si mise a sedere sentendosi un miserabile con tutte le ossa rotte.

"Ucciderei per del caffè," disse, resistendo al desiderio di torturare le sue articolazioni stirandosi. "E per del pain au chocolat caldo."

"Se a Yzordderrex non ce l'hanno, lo inventeremo," disse Pie.

"Hai scaldato la bevanda?"

"Non c'è più niente da bruciare."

"E il tempo com'è?"

"Non chiederlo."

"Così brutto?"

"Dobbiamo andare avanti. Più neve c'è, più sarà difficile trovare il Passo."

Fecero alzare il doeki, che diede chiari segni del suo malcontento per la colazione a base di parole d'incoraggiamento e non di fieno e, caricata la carne che Pie aveva preparato il giorno prima, abbandonarono il rifugio tra le rocce e si diressero verso la neve. Prima di partire c'era stata una piccola discussione sull'opportunità di cavalcare o no, e Pie insisteva che Gentle dovesse farlo, dato il suo stato attuale, ma l'altro aveva ribattuto che avevano bisogno di tutta la forza del doeki per farsi portare entrambi nel caso si fossero trovati in difficoltà ancora peggiori. Gentle, però, iniziò ben presto a inciampare nella neve che in certi punti gli arrivava alla vita, e il suo corpo, anche se abbastanza rinfrancato dal sonno, non si mostrò ancora in grado di affrontare simili difficoltà.

"Andremo più veloci se cavalchi," gli disse Pie.

Non ci volle molto a persuaderlo, stavolta: la sua stanchezza era tale che, una volta montato il doeki, riuscì solo a malapena a restare seduto con il vento che tirava, per cui si abbandonò sul collo dell'animale. Si rialzava solo di tanto in tanto da quella posizione, e quando lo faceva lo scenario era cambiato di poco.

"Non dovremmo aver raggiunto il Passo, ormai?" mormorò a Pie a un certo punto, ma bastò lo sguardo sul viso di Pie a dargli la risposta che cercava. Si erano perduti. Gentle si sforzò di mettersi in posizione eretta, e tenendo gli occhi socchiusi contro il forte vento cercò un possibile rifugio, per quanto piccolo. Il mondo era divenuto completamente bianco e solo loro non lo erano, ma nondimeno venivano progressivamente cancellati dal ghiaccio che si formava sulle pellicce dei loro giacconi, e dalla neve sempre più profonda attraverso la quale stavano camminando a fatica. Fino a quel momento, per quanto il viaggio fosse diventato arduo, Gentle non aveva mai preso in considerazione la possibilità di fallire. Era stato il miglior credente nella dottrina della loro indistruttibilità. Ma ora mantenere questa certezza sembrava difficile. Il mondo bianco avrebbe tolto loro ogni colore, fino a giungere alla purezza delle loro ossa.

Gentle allungò una mano per toccare la spalla di Pie, ma sbagliò a misurare la distanza e scivolò dal dorso del doeki. Improvvisamente priva del suo peso, la bestia si piegò, le zampe anteriori cedettero. Se Pie non fosse stato svelto a tirarlo via, Gentle sarebbe forse rimasto schiacciato dall'animale. Si tolse il cappuccio, si spazzolò la neve dal collo e si alzò in piedi, per incontrare lo sguardo esausto di Pie.

"Pensavo di andare nella direzione giusta..." disse il mystif.

"Certo che lo pensavi."

"Ma abbiamo perso il Passo. Il pendio diventa più ripido. Gentle, non so dove cazzo siamo."

"Nei guai, ecco dove siamo, e troppo stanchi per pensare a come uscirne. Dobbiamo riposare."

"Dove?"

"Qui," disse Gentle. "Questa bufera non può continuare per sempre. Nel cielo c'è solo una certa quantità di neve, e la maggior parte è già caduta, giusto? Giusto? Perciò se riusciamo a resistere sino alla fine della bufera, e riusciamo a vedere dove siamo..."

"E se nel frattempo si fa di nuovo notte? Congeleremo, amico mio."

"Abbiamo qualche altra scelta?" chiese Gentle. "Se continuiamo, uccideremo l'animale e probabilmente noi stessi. Potremmo marciare sull'orlo di un burrone, non ce ne accorgeremmo mai. Ma se restiamo qui... insieme... forse abbiamo una possibilità."

"Pensavo di conoscere la direzione."

"Forse la conoscevi. Forse quando la tempesta finirà ci ritroveremo dall'altra parte della montagna." Gentle mise la mano sulle spalle di Pie, portandola poi sulla nuca del mystif, "Non abbiamo altra scelta," disse lentamente.

Pie annuì, e insieme si sistemarono come meglio potevano al riparo, assai incerto, del corpo del doeki. L'animale respirava ancora, ma Gentle pensò che non sarebbe stato per molto. Cercò di non pensare a cosa sarebbe successo se fosse morto e la tempesta non fosse passata, ma che senso aveva allontanare simili visioni? Dato che la morte sembrava inevitabile, non sarebbe stato meglio che lui e Pie la affrontassero insieme tagliandosi le vene e morendo dissanguati fianco a fianco, piuttosto che congelare lentamente, fingendo di credere fino alla fine a una possibilità di sopravvivenza? Era pronto a proporre a Pie questa soluzione adesso, mentre aveva ancora l'energia e la concentrazione per farlo, ma quando si girò verso il mystif, venne raggiunto da una vibrazione che non proveniva dalla tiritera del vento, ma da una voce che sotto il suo turbinio gli diceva di alzarsi. Lo fece. Le raffiche di vento lo avrebbero sbattuto a terra se Pie non si fosse alzato con lui, e i suoi occhi non avrebbero potuto vedere le figure tra le raffiche; il mystif gli prese un braccio e, avvicinando la testa alla sua, disse: "Come diavolo hanno fatto a uscire?"

Le donne si trovavano a una decina di metri da loro. I loro piedi toccavano la neve ma non vi lasciavano impronte. I loro corpi erano avvolti in cenci di ghiaccio che si gonfiavano attorno a loro con il vento. Alcune tenevano in mano dei tesori presi dal ghiacciaio. Pezzi del tempio, dell'arca, dell'altare. Una, la ragazza il cui cadavere aveva tanto commosso Gentle, teneva tra le braccia la testa di una dea scolpita in pietra blu. Era stata molto danneggiata. C'erano delle fratture sulla guancia, mancavano parte del naso e un occhio. Ma da qualche parte veniva investita dalla luce ed emanava una radiosità serena.

"Cosa vogliono?" disse Gentle.

"Forse te?" azzardò Pie.

La donna più vicina a loro, con i capelli sollevati sulla testa dal vento, fece cenno di seguirla.

"Credo che vogliano che andiamo tutti e due," disse Gentle.

"Pare di sì," concordò Pie, senza muovere un muscolo.

"Cosa stiamo aspettando?"

"Pensavo fossero morte," disse il mystif.

"Forse lo erano."

"Allora ci facciamo guidare da fantasmi? Non sono sicuro che sia saggio."

"Pie, sono venute a cercarci," disse Gentle.

Dopo aver fatto loro cenno, la donna si stava girando lentamente in punta di piedi, come una Madonna meccanica che Clem aveva regalato una volta a Gentle e che ruotava su se stessa al suono dell'Ave Maria.

"Se non ci affrettiamo le perderemo. Qual è il problema Pie? Hai già parlato con gli spiriti altre volte."

"Non con questi," disse Pie, "Sai, le Dee non erano tutte madri clementi. E i loro riti non erano tutti rose e fiori. Alcune di loro erano crudeli. Sacrificavano gli uomini."